sabato 2 luglio 2016

Due facce della stessa medaglia


di Vincenzo Cerulli

Che differenza c'è fra un giovane italiano in fuga verso Londra o la California e un giovane pakistano in fuga verso i nostri lidi? Nessuna nella sostanza. Il primo verrà sfruttato come lavapiatti o commesso tuttofare in un grande magazzino, il secondo come venditore ambulante, nelle spiagge d’estate e nei supermercati d’inverno. C'è solo una piccola differenza formale per quanto riguarda la comodità (il "comfort" cui gli occidentali anelano) dei due tipi di espatrio. Le motivazioni sono le stesse ed anche le ambizioni, causa e fine coincidono da Reggio Calabria, Roma, Milano fino a Islamabad, Lahore e Karachi: anche le ambizioni si appiattiscono su un unico modello planetario, la “way of life” hollywoodiana ha la stessa forza persuasiva su tutti i meridiani. Entrambi hanno deciso di fuggire invece di lottare per cambiare il proprio paese, entrambi sono il frutto più dolce della globalizzazione: lo sradicamento apolide senza scopo.

Il capitalismo li costringe ad abbandonare il proprio paese, i propri cari; eppur loro fuggono alla ricerca del capitalismo, assistiamo ad una sorta di sindrome di Stoccolma per la quale chi è costretto a sopravvivere di stenti invece di cambiare la propria esistenza vuole radicalmente sostituirsi a chi muove gli enormi capitali che stanno massacrando le aziende del proprio paese, invece di combattere chi mette in ginocchio l’economia della propria nazione si limitano ad invidiare i loro stili di vita, si adora malignamente il padrone.

La vittima si lega al carnefice attraverso l’imposizione massmediatica del desiderio irresistibile per quegli oggetti che sono proprio la causa del proprio male, il sigillo della propria sconfitta (vedi “Un comunista a Parigi nel ‘68” Lorenzo Vitelli Circolo Proudhon Edizioni). Così attraverso l’imposizione (che non è assolutamente violenta ma anzi volontaria e “soft”) di quegli oggetti del desiderio (grandi automobili, hi-tech di svago, fast-food etc,etc) le vittime auto-alimentano il proprio mulino del supplizio, un cane che si auto-compiace del proprio mordersi la coda.

Per questo prima di una rivoluzione socio-economico-politica abbiamo innanzitutto bisogno di una Rivoluzione cultural-antropologica: dobbiamo cambiare i nostri oggetti del desiderio. Per concludere, tornando alle nostre due “vittime” del turbocapitalismo finanziario dobbiamo di nuovo sottolineare che desideri identici fanno persone identiche, un unico mercato planetario in cui tutti vogliono le stesse cose è più semplice da controllare piuttosto che 10,100,1000 mercati.

Vi lasciamo con una frase di un intellettuale che forse più di tutti aveva anticipato, compreso e temuto questa tremenda “mutazione antropologica”: Pier Paolo Pasolini. Il poeta ci ha infatti lasciato questo monito: “Ho nostalgia della gente povera e vera che si batteva per abbattere quel padrone senza diventare quel padrone. Poiché erano esclusi da tutto, nessuno li aveva colonizzati. Io ho paura di questi negri in rivolta, uguali al padrone, altrettanti predoni, che vogliono tutto a qualunque costo.”

Se dobbiamo veramente abbattere il Padrone dobbiamo iniziare a riconoscere la nostra condizione di servi, servi colti, con dei diritti, anche belli e in salute ma pur sempre servi: in quanto vicini agli ultimi della società, in quanto in lotta con trattati non voluti e organizzazioni internazionali, servi in quanto più vicini a chi soffre, servi in quanto affamati. 


(Pubblicato originariamente su Economia Democratica) 

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