sabato 3 settembre 2016

La satira e Charlie Hebdo


di Horatiu Chituc

Ai tempi di Platone c’era un certo Diogene di Sinope, un cinico che era contraddistinto dai i suoi comportamenti fuori dal comune e contrari ad ogni convenzione sociale. Infatti questo “filosofo cane” viveva in una botte, urinava sulle persone, defecava nel teatro, si masturbava in pubblico e non aveva paura di mostrare disdegno nei confronti del potere (politico) e dei potenti. Emblematico è l’episodio in cui gli si presenta davanti Alessandro Magno chiedendogli se avesse bisogno di qualcosa e Diogene risponde: "Scostati un poco dal sole".

Tale atteggiamento, di sovversione dei valori e delle gerarchie del potere ricompare da sempre nella satira la quale si può manifestare con un umorismo più o meno dissacrante. E quei gradi, quel più e quel meno, possono essere decisamente significativi per determinare una reazione piacevole o spiacevole nelle persone, anche e soprattutto in base alle circostanze in cui ci si trova. Infatti, se io inizio a fare satira pesante e insultare un morto mentre si celebra il suo funerale il mio comportamento sarebbe fortemente condannato da tutti i presenti, mentre uno spezzone di Crozza che si prende gioco di Renzi o del Papa non crea scandalo quasi per nessuno, anzi, è accettato dalla maggior parte perché permette un momento di sfogo collettivo, in cui noi, gente comune, impotenti davanti ai grandi poteri, li possiamo vedere ridotti a qualcosa di più basso di cui si può ridere per quanto risultano ridicoli in quella forma.

Ora, per parlare dell’episodio dell’ultima ora, ciò che hanno concepito “le eccellenti menti creative” di Charlie Hebdo oggi, ma anche in passato (infatti per loro questa è la prassi), assomiglia più alla masturbazione in pubblico di Diogene e alla sua defecazione in teatro. Infatti, di questo si tratta: non di fare umorismo vero e proprio, ma di defecare sotto i riflettori di tutto il mondo e di credere che questo in verità faccia ridere (nonostante sia pure vero che spesso producono il loro materiale cercando di colpire obiettivi ben precisi come i potenti della politica e della religione, sempre con un modo di fare che segue gli aspetti più estremi dei valori occidentali odierni).



Eppure, dopo la pubblicazione di oggi, c’è qualcuno che, volendo difendere la rivista parigina, vede nella battuta “Circa 300 morti in un terremoto in Italia – si legge -. Ancora non si sa se il sisma abbia gridato ‘Allah akbar’ prima di tremare” comparsa sulla stessa pagina della vignetta, un modo per dire “l’Europa ha tremato per gli attacchi terroristici fino adesso, ma si è scordata di come le forze politiche interne non si siano curate della sicurezza dei cittadini” e tenta di giustificare la vignetta così. Ma i problemi con questo tipo di giustificazione sono i seguenti: 1) Il contenuto della vignetta è completamente diverso dal contenuto della battuta, perciò è legittimo criticare il primo senza tener conto del secondo. 2) Non è detto che l’interpretazione della battuta sia quella giusta anche perché non c’è un esplicito riferimento o indizio che ci faccia pensare che la volontà dello scrittore fosse proprio quella di denunciare le forze politiche interne. 3) Anche se l’interpretazione fosse quella giusta e la volontà dello scrittore fosse proprio quella di dire ciò che alcuni hanno interpretato, il riferimento implicito della battuta non è per niente chiaro. 4) Non è detto che il disastro del terremoto sia il risultato di decisioni politiche sbagliate o “volutamente sbagliate”, anche perché le indagini sono ancora in corso e le colpe ancora da stabilire.

Il punto “4)” ci riporta al secondo momento della vicenda, quello in cui le menti di Charlie Hebdo hanno preso coscienza della reazione indignata dell’opinione pubblica italiana e hanno tentato di salvarsi in calcio d’angolo. Infatti, sempre oggi, a poche ore dalla prima vignetta, ne hanno prodotta un’altra in cui compare un terremotato sotto le macerie che dice “Italiani, non è Charlie Hebdo che costruisce le vostre case, è la mafia!”. Ritorna dunque il punto “4)”, con una precisazione aggiuntiva, ovvero, nonostante ci siano state delle accuse di legami tra la mafia e il consorzioche si è occupato della costruzione del sistema antisismico per una scuola di Amatrice che poi è crollata, il ché significherebbe che la mafia ha veramente una colpa in ciò, il TAR ha respinto questi collegamenti tempo fa e, comunque, come detto prima, le colpe sono ancora da stabilire, perciò puntare già il dito contro qualcuno e in special modo contro la mafia, risulta in questo caso solo un luogo comune senza alcuna base nella realtà (almeno per ora).



Diciamo tutto ciò considerando però che la mafia c’entrava veramente nella tragedia del terremoto de L’Aquila e che Charlie Hebdo non è l’istituzione che si occupa delle indagini, ma una rivista satirica. Però l’umorismo, per essere tale deve partire da qualcosa che si può riscontrare nella realtà dei fatti, altrimenti risulta solo un esercizio di ignoranza e stupidità e l’attenzione viene rivolta più sulle sue sbadate imprecisioni che sull’essenza della battuta.

Volendo dare un'occhiata pure a quelle che sono state le reazioni dell'opinione pubblica, è ovvio che, per via degli attacchi terroristici avvenuti nella redazione della rivista parigina, il discorso sui social e in generale si è incentrato soprattutto sulla libertà di parola e chi ha scelto di difendere Charlie lo ha fatto secondo questo principio. 

Qui c’è molta confusione e bisogna fare chiarezza. Infatti, la libertà di parola è una cosa, il contenuto di un discorso, di un’immagine, di un simbolo è un altro. La libertà di parola è un principio che in Occidente è diventato (giustamente) sacrosanto, ma, d’altro canto, giustificare i contenuti di qualsiasi discorso/immagine/simbolo mettendoci in mezzo questo principio non ha senso. 
Un’analogia adeguata sarebbe quella di un re che legittima il proprio potere attraverso il principio divino. La stessa cosa sta avvenendo con la libertà di parola (il contenuto si legittima con il principio) e sembra quasi che una reazione di disdegno per il contenuto di un discorso e di chi lo fa sia in verità un attacco rivolto al principio stesso (almeno nella mente di taluni). Nulla di più vero, anche se c’è anche chi lo attacca veramente. Ma il diritto di reagire liberamente a qualsiasi cosa si ha davanti, purché sia una reazione nei limiti della legalità, è un diritto sacrosanto quanto quello della libertà di parola. E poi ricordiamoci anche che, come dice un proverbio italiano,  “Il pensare è libero, ma il parlare vuol prudenza”.

Pubblicato originariamente su Parola all'agorà

mercoledì 31 agosto 2016

Cambiare il passato: utopia possibile


di Vincenzo Cerulli

Pubblicato originariamente su barbadillo.it

Cambiare il passato: utopia possibile

Come probabilmente già sapete Marck Zuckerberg si trovava due giorni fa a Roma, riassumiamo qui la sua giornata in tre momenti: visita dal Papa, visita dal primo ministro Renzi e, nel pomeriggio, lezione\conferenza all’università LUISS di Roma.

Analizziamo brevemente questo suo post che annuncia l’arrivo in Italia: 

Ha dato un’interpretazione palesemente erronea della celebre Pax Romana: quest’ultima infatti non è “200 anni di pace mondiale” come farebbe comodo pensare a chi vede nella Storia un processo lineare che prima o poi giungerà alla pacificazione mondiale di ogni conflitto, kantianamente potremmo dire una “pace perpetua”.
La Pax Romana è piuttosto lo spostarsi del conflitto dall’interno dell’impero (guerre intestine e ambizioni fraticide) all’esterno dei propri confini (ripetute guerre contro i Parti e le tribù germaniche).
Un errore del genere non va assolutamente sottovalutato per due motivi:
1 chi l’ha commesso è probabilmente la persona mediaticamente più influente al mondo, per tutte le persone che hanno “accettato” quel post la Pax Romana ha cambiato di significato, in pratica più di 155000 persone hanno accettato una “nuova versione” del passato
2 nel merito dell’errore ci sfiora l’idea (sempre meno assurda) che al pensiero “globalista\mondializzatore” faccia comodo come versione del passato un’oasi in cui c’era un impero mondiale con le varie sovranità nazionali inesistenti, dunque impossibilitate a portare guerra: un po’ quello che sarebbe dovuto accadere (e un po’ è accaduto) con “il secolo americano”.
Per coniugare i due punti basta riprendere una delle dichiarazioni odierne dello stesso Zuckerberg agli studenti della LUISS: il momento in cui parla di “apprendimento personalizzato”. Riportiamo quello che ha detto: ”Vogliamo creare software per l’apprendimento personalizzato ed inserirli nelle scuole, inizieremo con le scuole americane, poi ci espanderemo, ci stiamo muovendo anche con la filantropia grazie alla “Zuckerberg Initiative” che cerca di migliorare il livello di formazione in tutto il mondo finanziando l’apprendimento personalizzato e la sua diffusione nel mondo.”
I privati che invadono le scuole pubbliche sembrano un dolce ricordo a confronto vero? Veramente dobbiamo pensare che fra qualche anno i programmi scolastici verranno scritti dai finanziatori del celebre social network? Sarebbe bene che il CEO di Facebook facesse chiarezza su queste sue dichiarazioni.
La potenza di questo social-network è talmente grande che è, per lo più, ancora inesplorata ed inesplosa. Siamo forse arrivati al punto in cui dei grandi consorzi di potere, nel giro di 3-4 generazioni di studenti da loro formati con i suddetti programmi, saranno in grado di modificare il passato? Sempre più sembra di sì, data la crescita inarrestabile di Facebook e della sua pervasività.
Una bugia ripetuta per tanti anni diventa verità, soprattutto se quella bugia influenza i circuiti scolastico/universitari. 






sabato 6 agosto 2016

Quando la nostalgia diventa idiozia (Brevi appunti sul fenomeno del "machenesanno")


di Vincenzo Cerulli

PREMESSA seria per righe semiserie: ben consci del fatto che può sembrare (agli idioti) una perdita di tempo affrontare questi temi, ci teniamo a ricordarvi che quando un argomento, per quanto possa sembrare stupido e puro intrattenimento, raggiunge un numero critico di persone (400000 per la pagina cui si fa riferimento e 4 milioni di visualizzazioni per la canzone qui sotto) allora non è più “stupido e puro intrattenimento”. Questo vale ancor di più oggi in cui il passaggio da “intrattenitore”(cantante, opinion-maker su facebook o youtube etc etc) ad intellettuale da salotto è sempre più breve: basti pensare a Fedez e J-ax col M5S.

Un fantasma si aggira per i social network, il fantasma del “machenesanno”. Sintomo principale del suo passaggio è il disprezzo aprioristico per il presente in funzione di un’esaltazione cieca, sciamanica ed idiota del passato. Sia chiaro però, questi zombi stregati dal suddetto spettro non rimpiangono mica un passato preciso, dunque molto ipoteticamente glorioso; rimpiangono vari “pezzi” di tutto quello che “c’è stato prima”. Di conseguenza è negato ogni possibile confronto fra un presente palesemente circoscritto a quel che accade ora ed un passato i cui confini vengono allungati ed accorciati tanto quanto fa comodo, come accade nel mito del letto di Procuste.
Qui un paio di esempi concreti:
la pagina facebook “Serie A - Operazione Nostalgia” (https://www.facebook.com/SerieAOperazioneNostalgia/?fref=ts) e la nuova hit (non a caso) dell’estate: “Che ne sanno i 2000” di Gabry Ponte ( https://www.youtube.com/watch?v=noY6ggSNTF0)
Per quanto riguarda la pagina sopra menzionata ci limitiamo a dire che quando uno slogan da utilizzare ogni tanto (“machenesanno” appunto) diventa la colonna vertebrale di tutta la struttura è inevitabile che poi si scada nel ridicolo. Così vengono fatti di continuo confronti fra campioni affermati del passato e bravi giocatori del presente. Ecco allora che vengono presi tutti i più forti calciatori dagli anni ’60 agli anni ’90 e, confrontati a quelli degli ultimi 10 anni, si dice che prima c’erano più campioni e che quelli di oggi non reggono il confronto ne’ per qualità ne’ per quantità (e grazie al ca#*o aggiungiamo noi).
Una pagina calcistica che ci teniamo a consigliare e che si distingue da quest’ultima per profondità di contenuti e per la parsimonia con cui viene utilizzato il tema della nostalgia è invece “La leva calcistica della classe ‘68”. In questa non viene screditato ogni calciatore che gioca oggi per il semplice fatto che non ha giocato 20-30 anni fa: si cerca, per quel che si può, di trovare una giusta misura fra la nostalgia per il “vecchio pallone” e la critica alle brutture del calcio moderno.
Della “canzone” cui sopra si accenna diciamo innanzitutto che si limita a cavalcare i tempi (come tutte le hit d’altronde), sono 4 minuti circa di listone delle “belle cose del buon tempo antico” in cui l’autore denigra “””ironicamente””” i nati dal 2000 in poi per inneggiare ad un presunto migliore passato che ha veramente le sembianze di un minestrone: da Luigi Tenco a Fiorello, dal Milan di Rijkaard, Gullit e Van Basten (oppure era quello di Seedorf e Stam? Nella minestra tutto si confonde) alle tartarughe ninja, dal Megadrive a Jeeg-robot etc etc, così per 4 minuti.

Cari lettori non spendiamo altre parole a riguardo perché per quanto serio sia questo fenomeno è comunque abbastanza semplice da decifrare ed affrontare, vi salutiamo con la speranza che la nostalgia torni ad occupare il posto che le spetta; che non è certo quello di merce di scambio con cui imporre una gerarchia su chi è nato dopo un certo periodo. Anche perché se così fosse ci dovremmo chiedere: “chi traccia il confine tra ciò che è nostalgia-passato e ciò che è presente?”. Servirebbe un osservatore sovra-storico, al di là della quotidianità in cui ci troviamo noi di continuo in quanto esseri storici.

sabato 23 luglio 2016

Il futuro dell'Europa secondo la visione di Cioran


di Horatiu Chituc

Limitandomi all’immediato, e in special modo all’Europa, prevedo, con una chiarezza perfetta, che la sua unità non si realizzerà, come credono alcuni, con accordi e trattative, ma attraverso la violenza, secondo le leggi che governano la formazione degli imperi”. Queste le parole di Emil Cioran che si riscoprono nel capitolo “Alla scuola dei tiranni” del saggio “Storia e Utopia” pubblicato nel 1960. Queste le parole che, alla luce degli avvenimenti degli ultimi giorni, sembrano prevedere la direzione in cui un’Europa sempre più sanguinante potrebbe dirigersi.


Nessuno può negare che il versamento di sangue c’è stato e, con molta probabilità, continuerà ad esserci. Si tratta di una crisi a cui la società “democratica e libera” degli ultimi decenni non è abituata, non come in altre parti del mondo dove si convive quotidianamente con il pensiero della morte e della lotta per la sopravvivenza. Noi invece ci eravamo scordati della guerra, della morte violenta; tutte cose tenute lontane dal nostro guscio protettivo “fortificato” con la libertà e la tolleranza.

Ebbene, a detta di Cioran, sono proprio questi (libertà e tolleranza) gli aspetti che segnano il declino di una civiltà che è arrivata al culmine della sua ascesa e che, da qui, non possono che preannunciare il ritorno a quello che c’era prima. In modo simile avvenne anche la fine della repubblica romana, che, dopo i terribili fatti delle guerre civili, si prostrò ai piedi dei dittatori e degli imperatori dando vita all’impero.

Sebbene, però, l'attuale discorso politico e sociale europeo sia totalmente diverso da quello che era due millenni fa, ci troviamo in una situazione affine per quanto riguarda le crisi intestine che preannunciano un cambiamento radicale nelle coscienze degli Europei, molti di cui sono pronti a reagire, mentre altri si tengono fondamentalmente saldi ai principi occidentali odierni e scelgono come strategia di “combattimento” il “continuare a vivere liberamente”, spacciandolo per una soluzione.

Ma volendo parlare di chi è pronto a cambiare rotta, si deve notare che tra non molto ci saranno le elezioni nei maggiori stati europei (Francia, Germania, Austria) ed è qui che il vero cambiamento può aver luogo, perché il popolo, soprattutto alla luce dei nuovi avvenimenti di stampo terroristico, è pronto a voltare pagina e svoltare a destra; non alla solita destra moderata, ma a quella anti-europeista, vista come nuova speranza per una reazione forte contro il terrorismo.

Collegando una possibile vittoria di questi partiti nei loro rispettivi paesi (che sono il cuore dell’Unione Europea) alla citazione summenzionata di Cioran, dobbiamo chiederci: saranno forse loro i nuovi tiranni di cui dobbiamo avere paura? La risposta è semplicemente no. Si tratta di separatisti, non di uomini politici pronti a unire l’Europa con la spada. E allora chi saranno i veri tiranni? E’ vero che sul piano economico e legislativo per certi aspetti stiamo già in una dittatura mascherata con l’UE che si impone sui vari stati e popoli europei, ma non si tratta ancora di una dittatura con la spada.


E’ proprio dopo le possibili vittorie della destra anti-europeista che vedremo se la visione cioraniana di un’unione tirannica dell’Europa si avvererà come reazione agli impulsi separatisti e indipendentisti. E’ lì che vedremo se questa Unione Europea che vive come una dittatura mascherata avrà il coraggio di rivelare se stessa per quel che è anche in modi violenti e senza scrupoli.   

(Pubblicato originariamente su http://parolaallagora.blogspot.it/)

lunedì 4 luglio 2016

Brogli in Austria: si torna al voto


La Corte Costituzionale austriaca ha riscontrato irregolarità nelle recenti elezioni presidenziali austriache: sono state certificate irregolarità in 94 dei 117 distretti elettorali per un totale di 78 mila schede scrutinate non correttamente. Più del doppio dei voti che decisero l’esito finale. A settembre il popolo austriaco sarà chiamato nuovamente a pronunciarsi.

di Simone Mela

Si andrà di nuovo al voto. I cittadini sono chiamati per l’ennesima volta alle urne. Ma se qualcuno pensa che si tratti del nuovo referendum sulla Brexit, come vorrebbe quella ridicola petizione lanciata in rete, si sbaglia. Proprio così, ad andare a votare saranno invece i cittadini austriaci, i quali dovranno scegliere, questa volta regolarmente, il loro Presidente.
Lo scorso 22 maggio infatti si era concluso veramente al fotofinish il ballottaggio per la presidenza della Repubblica austriaca tra il candidato del Partito della Libertà Austriaco (FPÖ) Norbert Hofer e l’indipendente Alexander Van der Bellen, appoggiato dai Verdi. Grazie al voto per corrispondenza, a spuntarla era stato quest’ultimo con uno scarto di appena 30 mila preferenze (50,3% – 49,7%). Ma le irregolarità riscontrate durante la fase di scrutinio, come l’affluenza al 146,9% al collegio di Waidhofen an der Ybbs (in pratica più votanti degli aventi diritto) o lo scrutinio dei voti per corrispondenza iniziato anzitempo, spinsero il partito nazionalista a chiedere ricorso. Ebbene questo ricorso è stato vagliato dalla Corte costituzionale austriaca.
“Le elezioni sono il fondamento della nostra democrazia e il nostro compito è di garantirne la regolarità. La nostra sentenza deve rafforzare il nostro Stato di diritto e la nostra democrazia”, ha detto a Vienna il presidente della Corte costituzionale Gehrart Holzinger prima di pronunciare la sentenza.
In due settimane la Consulta ha ascoltato 90 testimoni e le irregolarità sono state certificate in 94 dei 117 distretti elettorali per un totale di 78 mila schede scrutinate in maniera irregolare: più del doppio dei voti che decisero l’esito finale. Mai prima d’ora era stato annullato un ballottaggio in Austria e mentre Bruxelles rimane a guardare, avendo dichiarato di non interferire con le decisioni prese da uno Stato membro, il pensiero non può che andare a quanto successo in Gran Bretagna con il referendum sulla Brexit. È stata molto chiara infatti la posizione presa dal partito di Hofer di voler sentire l’opinione del popolo sul tema Ue.
Se l’Ue seguita a svilupparsi così distorta verrà il momento di dare la parola ai cittadini austriaci” – Queste sono state le sue parole pochi giorni fa, dopo la consultazione britannica, mentre oggi, in un’intervista rilasciata al Corriere della Sera, sempre per quanto riguarda un possibile referendum, risponde che “qualora la Turchia dovesse entrare nell’Unione Europea, ciò non sarebbe gestibile da parte dell’Europa, e ci sarebbe una ragione fondata per domandare alla popolazione austriaca la sua volontà sulla permanenza o meno in un simile contesto. Il caso della Gran Bretagna ha dimostrato che l’Unione Europea, questa Unione Europea, è palesemente lontana dalle persone […] Un cambiamento dei trattati europei in direzione di un ulteriore riduzione delle competenze degli Stati membri, in Austria, porterebbe automaticamente a un referendum”.
Insieme alla Brexit, dunque, l’elezione (prevista per il prossimo settembre) di un presidente nazionalista di uno Stato che fa parte dell’Unione europea, evento mai avvenuto dalla fine della seconda guerra mondiale ad oggi, potrebbe rivelarsi una micidiale doppietta per l’Ue. Non vogliamo nemmeno immaginare cosa stia balenando nelle teste dei vari Severgnini, Saviano e Monti per una decisione così garante della democrazia. Loro, per i quali la democrazia va bene solo se vince la fazione che ritengono più giusta. Loro, che decisioni così importanti non devono essere sottoposte al popolo greve e ignorante. Beh, il popolaccio riandrà a votare e forse attirerà anche coloro i quali hanno preferito Van der Bellen ma, schifati dai brogli messi in evidenza, potrebbero votare a favore di Hofer. Appuntamento a settembre.
(Pubblicato originariamente su l'Opinione Pubblica)

sabato 2 luglio 2016

Due facce della stessa medaglia


di Vincenzo Cerulli

Che differenza c'è fra un giovane italiano in fuga verso Londra o la California e un giovane pakistano in fuga verso i nostri lidi? Nessuna nella sostanza. Il primo verrà sfruttato come lavapiatti o commesso tuttofare in un grande magazzino, il secondo come venditore ambulante, nelle spiagge d’estate e nei supermercati d’inverno. C'è solo una piccola differenza formale per quanto riguarda la comodità (il "comfort" cui gli occidentali anelano) dei due tipi di espatrio. Le motivazioni sono le stesse ed anche le ambizioni, causa e fine coincidono da Reggio Calabria, Roma, Milano fino a Islamabad, Lahore e Karachi: anche le ambizioni si appiattiscono su un unico modello planetario, la “way of life” hollywoodiana ha la stessa forza persuasiva su tutti i meridiani. Entrambi hanno deciso di fuggire invece di lottare per cambiare il proprio paese, entrambi sono il frutto più dolce della globalizzazione: lo sradicamento apolide senza scopo.

Il capitalismo li costringe ad abbandonare il proprio paese, i propri cari; eppur loro fuggono alla ricerca del capitalismo, assistiamo ad una sorta di sindrome di Stoccolma per la quale chi è costretto a sopravvivere di stenti invece di cambiare la propria esistenza vuole radicalmente sostituirsi a chi muove gli enormi capitali che stanno massacrando le aziende del proprio paese, invece di combattere chi mette in ginocchio l’economia della propria nazione si limitano ad invidiare i loro stili di vita, si adora malignamente il padrone.

La vittima si lega al carnefice attraverso l’imposizione massmediatica del desiderio irresistibile per quegli oggetti che sono proprio la causa del proprio male, il sigillo della propria sconfitta (vedi “Un comunista a Parigi nel ‘68” Lorenzo Vitelli Circolo Proudhon Edizioni). Così attraverso l’imposizione (che non è assolutamente violenta ma anzi volontaria e “soft”) di quegli oggetti del desiderio (grandi automobili, hi-tech di svago, fast-food etc,etc) le vittime auto-alimentano il proprio mulino del supplizio, un cane che si auto-compiace del proprio mordersi la coda.

Per questo prima di una rivoluzione socio-economico-politica abbiamo innanzitutto bisogno di una Rivoluzione cultural-antropologica: dobbiamo cambiare i nostri oggetti del desiderio. Per concludere, tornando alle nostre due “vittime” del turbocapitalismo finanziario dobbiamo di nuovo sottolineare che desideri identici fanno persone identiche, un unico mercato planetario in cui tutti vogliono le stesse cose è più semplice da controllare piuttosto che 10,100,1000 mercati.

Vi lasciamo con una frase di un intellettuale che forse più di tutti aveva anticipato, compreso e temuto questa tremenda “mutazione antropologica”: Pier Paolo Pasolini. Il poeta ci ha infatti lasciato questo monito: “Ho nostalgia della gente povera e vera che si batteva per abbattere quel padrone senza diventare quel padrone. Poiché erano esclusi da tutto, nessuno li aveva colonizzati. Io ho paura di questi negri in rivolta, uguali al padrone, altrettanti predoni, che vogliono tutto a qualunque costo.”

Se dobbiamo veramente abbattere il Padrone dobbiamo iniziare a riconoscere la nostra condizione di servi, servi colti, con dei diritti, anche belli e in salute ma pur sempre servi: in quanto vicini agli ultimi della società, in quanto in lotta con trattati non voluti e organizzazioni internazionali, servi in quanto più vicini a chi soffre, servi in quanto affamati. 


(Pubblicato originariamente su Economia Democratica) 

mercoledì 29 giugno 2016

Cortocircuito occidentale vol.3


di Vincenzo Cerulli

"Il sindacalista coglione fa più male all'operaio che al padrone"

Ma Landini quando capirà di stare dal lato sbagliato della storia?
Dice che l'UE "va cambiata", non dobbiamo uscirne, bisogna cambiarla dall'interno. Wow! Che lungimiranza, che presa di posizione coraggiosa! Nitidamente a favore degli operai, difatti è la stessa posizione difesa da famosi Kompagni moderni: Merkel, Hollande, Renzi, Padoan, Juncker, Di Maio, Monti etc etc
Quindi lui sarebbe quello buono e giusto rispetto alla Camusso...
Noi non vediamo differenza alcuna fra i due; piuttosto ridateci Antonio Labriola, Nicola Bombacci e Filippo Corridoni!!!

martedì 28 giugno 2016

L'Unione Europea dopo il Brexit


di Simone Mela

La vittoria del Leave come esito del referendum sulla Brexit dello scorso 23 giugno dà sicuramente un chiaro e forte segnale all’Unione Europea, incapace di far fronte ai problemi dei cittadini, generando da parte sua una disaffezione dalle istituzioni comunitarie via via sempre più grande.
Volendo aprire una parentesi è paradossale il fatto che si dica, in questi casi, che il singolo Stato nazionale non sia in grado di risolvere problemi globali quando è la stessa Ue a non avere saputo gestire problemi importanti come quello dei flussi migratori. Ma sarebbe anche un po’ grossolano e riduttivo legare il successo di coloro che hanno deciso di lasciare l’Ue con il tema dell’immigrazione, la quale come recentemente scritto dall’intellettuale francese Alain de Benoist è solamente la conseguenza e non la causa della forte mancanza di identità.
Questo successo euroscettico però ha acceso anche gli animi delle altre forze politiche europee che mostrano una forte avversione verso l’impianto eurocratico. Una entusiasta Marine Le Pen, leader del Front National, ha affermato che quella britannica è stata “una vittoria della libertà” e che ora, come chiede da anni, “serve lo stesso referendum anche in Francia” e negli altri paesi dell’Ue. Dall’Olanda, Geert Wilders, fondatore e capo del Partito per la Libertà (PVV), guarda con favore a un possibile abbandono dell’Ue da parte dei Paesi Bassi. “Ora è tempo di un nuovo inizio, se diventerò primo ministro, ci sarà referendum” – ha detto Wilders. Dichiarazioni di questo genere sono arrivate anche dal leader del Partito della Libertà Austriaco (FPÖ) Heinz Christian Strache il quale, forte dell’ottimo risultato ottenuto alle presidenziali da Norbert Hofer, ha sentenziato in questo modo: “Se l’Ue si ostina nel suo rifiuto a fare le riforme, allora un voto dell’Austria sarà un nostro obiettivo”. Persino in Svezia, i Democratici, partito nazionalista, chiedono che vengano rinegoziati gli accordi e che il popolo svedese dovrebbe avere l’opportunità di poter esprimersi sulla sua appartenenza all’Ue. Per finire, segnaliamo anche le parole provenienti dalla Germania stessa pronunciate dal capo di Alternative für Deutschland, Frauke Petry: “I cittadini europei vogliono ora riprendersi la sovranità alla maniera britannica”.
Non c’è dubbio che sul vecchio continente, ora più che mai, soffi un forte vento euroscettico. Il prossimo anno e mezzo sarà fondamentale per capire quale sarà il futuro dell’Ue. Il calendario politico, infatti, prevede le elezioni presidenziali in Francia il prossimo maggio: se il Front National riuscirà a migliorare il risultato delle regionali dello scorso dicembre conquisterà l’Eliseo e allora sarà referendum. In Olanda, sempre nel 2017, ci saranno le elezioni per la Camera, in Austria nel 2018 si terranno quelle parlamentari, vero appuntamento atteso dal Partito della Libertà (FPÖ). E non dimentichiamoci le elezioni federali in Germania il prossimo autunno. Se tutte queste forze politiche si affermeranno nei rispettivi paesi, parole come Frexit o Nexit potranno essere qualcosa di più che semplici slogans.
Il rischio (per Bruxelles) e la speranza (per i popoli liberi) è che il risultato del referendum britannico possa causare il cosiddetto effetto domino. Se nei prossimi mesi i popoli europei, guardando l’esempio britannico, si accorgeranno che fuori dall’Ue c’è vita, questi movimenti euroscettici porteranno moltissimi cittadini a votare per le loro liste. Ovviamente non sarà facile. Si deve sempre tenere a mente che il Regno Unito ha la propria sovranità monetaria e non è precisamente un dettaglio fare un referendum sotto ricatto Draghi che “chiude i rubinetti”, con la conseguente corsa isterica agli sportelli e lo spread alle stelle (Grecia docet).
E in Italia? Già, quasi ci dimenticavamo dell’Italia. Premesso che un primo passo per lanciare qualche segnale a Bruxelles sarebbe bocciare la riforma costituzionale al referendum del prossimo ottobre, nel nostro paese la palla è ormai passata al Movimento 5 Stelle il quale, dopo la conquista del Campidoglio e l’exploit di Torino, si è seriamente candidato come alternativa di governo. Ma la linea politica del M5S su Ue e Euro è a dir poco ambigua. A oggi sembra stare su posizioni più moderate come dimostra l’abbandono del, seppure impossibile, referendum sull’Euro e l’atteggiamento di un Di Maio che strizza l’occhio alla grande finanzia come si è potuto recentemente leggere in un suo tweet. Inoltre come ha riportato Claudio Messora sul suo blog byoblu, sul sito dei 5 Stelle il 20 maggio è uscito un articolo in cui si afferma che “il Movimento 5 Stelle è in Europa e non ha nessuna intenzione di abbandonarla […] il Movimento 5 Stelle si sta battendo per trasformare l’Ue dall’interno”. Quando si tratta di essere dal lato giusto della storia…

(Pubblicato originariamente su l'Opinione Pubblica)

venerdì 24 giugno 2016

Cortocircuito occidentale vol.2


di Vincenzo Cerulli

Forse mi sono perso qualcosa?
Scusate lettori ma quando Alexis Tsipras portava avanti la lotta all'austerità e si lamentava dell'insostenibilità dell'ingente numero di richiedenti asilo sul territorio greco era un bravo Kompagno che difendeva il proletariato giusto?
Bene, allora perché ora che chiede le stesse identiche cose Nigel Farage questi viene descritto come uno sporco xenofobo disumano nazionalista? Ve lo diciamo noi perché. Questa è la volta buona che a Bruxelles iniziano ad avere veramente paura. Il Regno Unito batte moneta autonomamente, sovranamente, quindi non è ricattabile. Almeno oggi lasciatecelo dire, Dio strabenedica gli inglesi!

Insostenibilità dell'uguaglianza in Nietzsche


di Vincenzo Cerulli

Elaborato della tesina per un esame di laurea triennale sullo Zarathustra di Friedrich Nietzsche.

<<Perché così parla a me la giustizia: “gli uomini non sono eguali”.>> (Così parlò Zarathustra – Adelphi pag.113)

Questa frase è pronunciata da Zarathustra nel capitolo ‘delle tarantole’ ed al suo interno vi è concentrata buona parte del pensiero politico di Friedrich Nietzsche. Per il filosofo di Rocken la vita, in quanto volontà di potenza, è continuo e perenne auto-superamento di se stessa, gerarchia, è conflitto e guerra, diseguaglianza, differenza ed elevazione: per questo non accetta che venga limitata in forme prestabilite e già sempre fissate. La figura della tarantola metaforicamente rappresenta il tipo politico del progressista, figlio dell’epoca dei “lumi”, fedele nel progresso dell’umanità viene descritta come affascinata e promotrice della volontà di uguaglianza, che per Nietzsche è la suprema realizzazione del cristianesimo di derivazione paolina. Paolo di Tarso infatti con la rivolta degli schiavi ha ribaltato l’impero romano, il più grande impero che gli uomini abbiano mai conosciuto. La volontà di uguaglianza è lotta contro la potenza, lotta contro la vita, la volontà di essere tutti uguali deriva dal sentimento di vendetta e gelosia nei confronti del più forte, del ‘signore’: per questo il cristianesimo di Paolo è l’ideologia fondamentale del nichilismo. Alla morte di Cristo i suoi discepoli, guidati da Paolo, hanno negato quello che il profeta aveva predicato in vita: in primo luogo il concetto di “offrire l’altra guancia”. I cristiani alla morte della loro guida sono caduti nel risentimento, hanno provato odio e desiderato vendetta contro la figura del ‘signore’ romano, in questo modo hanno fatto crollare un impero, fattisi portavoce dell’uguaglianza planetaria hanno colpito a morte chi non accettava la loro volontà (l’impero pagano prima e gli eretici pagani dopo). Qui sta il vulnus degli ‘ideali egualitari’: Nietzsche critica proprio il fatto che chi li professa nasconda la propria volontà di comandare dietro una fumosa giustizia oggettiva. <<Se il sofferente, l’oppresso perdesse la fede di avere il diritto di disprezzare la volontà di potenza, entrerebbe nello stadio della più nera disperazione. Ciò avverrebbe se questo carattere fosse essenziale alla vita, se risultasse che anche in quella “volontà di morale” è camuffata solo questa “volontà di potenza”, che anche quell’odio e quel disprezzo è ancora una volontà di potenza. L’oppresso capirebbe di stare con l’oppressore ‘sullo stesso piano’ e di non avere un ‘diritto migliore’, un ‘rango superiore’ rispetto all’altro.>> (KSA 12, OFN VIII, I) Questa “cattiva coscienza”, o ipocrisia di fondo, che troviamo nella volontà di uguaglianza (che altro non è che volontà di potenza camuffata) viene descritta ancor meglio da Nietzsche in un passo in cui delinea una dialettica simile a quella servo-padrone in cui l’influenza di Hegel è palese: <<Ogni volta che ho trovato un essere vivente, ho anche trovato volontà di potenza; e anche nella volontà di colui che serve ho trovato la volontà di essere padrone. Il debole è indotto dalla sua volontà a servire il forte, volendo egli dominare su ciò che è ancora più debole: a questo piacere, però, non sa rinunciare. E come il piccolo si dà al grande, per avere diletto e potenza sull’ancor più piccolo: così anche ciò che è più grande dà se stesso e, per amore della potenza, mette a repentaglio - la vita>> (Così parlò Zarathustra pag.130,131 Della vittoria su se stessi). Con Nietzsche allora ci chiediamo: <<è giusto che il servo valga quanto il padrone, è giusto che “chi non ha rischiato la propria vita”(Hegel) abbia tanto potere di incidere sulla realtà quanto chi ha rischiato tutto?>>. La risposta di Nietzsche è assolutamente negativa e la possiamo in parte scorgere in questo passo: <<Perché gli uomini non sono eguali: così parla la giustizia. E a loro (qui con particolare riferimento ai ‘dotti’) non dovrebbe essere lecito volere ciò che io voglio>>.(Così parlò Zarathustra pag.145 Dei dotti) Qui il filosofo è chiarissimo, si delinea una gerarchia netta fra chi serve e chi comanda ed il primo non ha “diritto a volere” quanto il secondo.

 La volontà di uguaglianza si manifesta politicamente attraverso la democratizzazione di ogni spazio della vita associata; per Zarathustra però questa volontà di uguaglianza non è altro che la massima realizzazione del nichilismo ed in quanto tale negazione della vita.  Per Nietzsche una società, un’epoca più in generale, si può definire ‘sana’ ed in forze solo se permane quella gerarchia che da sempre contraddistingue la storia degli uomini. L’impero romano è stato grande proprio perché comandato da ‘signori’ e non da servi, o da “servi eletti”, scelti dal popolo. Nietzsche troverà questa ‘forza’, questa ‘salute’, questa ‘postura eroica’ nei confronti della vita anche nel Rinascimento italiano: <<Le epoche forti, le culture nobili vedono qualcosa di spregevole nella compassione, nell’amore del prossimo, nella mancanza di sé e di sentimento di sé. – Le epoche sono da misurarsi secondo le loro ‘forze positive’ – e così ne risulta che quell’epoca così prodiga e fatale del Rinascimento fu l’ultima grande epoca, e noi, noi moderni con la nostra ansiosa sollecitudine verso noi stessi e il nostro amore del prossimo, con le nostre virtù del lavoro, della modestia, della legalità, della scientificità – accumulatori, economici, macchinali – siamo un’epoca ‘debole’… Le nostre virtù sono condizionate, sono ‘provocate’ dalla nostra debolezza.>>(GD Scorribande di un inattuale 37) All’origine della volontà di uguaglianza c’è l’invidia verso chi possiede volontà di potenza: per questo la morale degli schiavi, la morale cristiana, è giudicata da Nietzsche come una morale del ‘ressentiment’, una morale contro-natura. <<Nell’imporre un unico standard e un’unica condotta per tutti, nel trascurare la distinzione e la differenza – soprattutto in senso gerarchico – “la morale come contro-natura, cioè quasi ogni morale finora insegnata, venerata e predicata, si rivolge al contrario contro gli istinti della vita, – essa è una condanna ora segreta, ora rumorosa e sfacciata di questi istinti”(GD Morale come contro-natura 4). E’ in realtà immorale dire: “Quel che è giusto per uno deve essere giusto per l’altro”(JGB 221)>>(Chiara Piazzesi – Nietzsche pag.151). Dunque la critica raggiunge un senso ontologico nel momento in cui democratizzazione ed uguaglianza, passando per il cristianesimo, vengono ricondotte perfettamente al nichilismo.

Alla figura della tarantola Nietzsche oppone in maniera speculare la figura della “scimmia di Zarathustra” nel capitolo ‘del passare oltre’. Questo “pazzo furioso” infatti è la rappresentazione poetica della figura del reazionario. La “scimmia” ha in comune con Zarathustra l’insofferenza verso la modernità, il senso di inadeguatezza esistenziale verso la propria epoca; le loro proposte sono però opposte. La scimmia vuole “tornare indietro”, sente la mancanza dei vecchi valori, della metafisica, della figura rasserenatrice di Dio e per questo tenta una sorta di “restaurazione”; Zarathustra invece vuole “passare oltre” la modernità attraverso la creazione di valori nuovi. I suoi modi e le sue pose sono grottesche, i suoi discorsi sono brutte copie di quelli di Zarathustra, la sua vita è una continua riesumazione di valori perduti per sempre. Se assumiamo che “Dio è morto” la messa, il rito eucaristico, altro non è che farsa, messa in scena: ecco, così è la vita della “scimmia”, una farsa. Prendendo in prestito l’immagine delle “tre metamorfosi” potremmo anche dire che la “scimmia”, dopo aver assistito alla vittoria del leone sul cammello-drago, senta una vertigine profondissima, un horror vacui tremendo ed insopportabile nel vedersi sola come “signore nel deserto”. Le sue spalle non sopportano il peso di quella responsabilità destinale a cui è chiamata a rispondere: tra “le vecchie tavole e nuove” vede il nulla e non ha il coraggio di superarlo con la creazione di valori nuovi.

Qui c’è probabilmente una differenza ontologica fra l’agire della “scimmia” e quello della tarantola e Nietzsche sembra addurre un peso più grave a quello di quest’ultima. Secondo le “tarantole” la modernità va ancor di più accelerata; ma non superata nel modo di Nietzsche, non con un nuovo creare, non con l’innocenza tragica a cui sarà destinato il fanciullo, bensì con l’uguaglianza planetaria. Annullando tutte le differenze, le diversità, le gerarchie, non fanno altro che imporre una gerarchia diversa, quella secondo la quale il forte deve essere dominato dai deboli e deve essere anche punito per la sua potenza.  Così parlano le tarantole dalle loro tane: “Noi vogliamo esercitare la vendetta e l’oltraggio contro tutti coloro che non sono eguali a noi”(Così parlò Zarathustra pag.111).  Nietzsche identifica la volontà di eguaglianza con il nichilismo, ci dice che proprio presso le “tarantole”, fra gli ideali egualitari, ha trovato dimora: “Vogliono far male a quelli che ora hanno la potenza: infatti, presso coloro trova miglior domicilio la predica della morte”(Ibidem pag.113). Da qui deduciamo la gravità ontologica maggiore delle tarantole; di contro le “scimmie” sono talmente spaesate nel deserto di valori da iniziare a fingere che Dio non sia morto, (una sorta di psicosi?) non accettano la fine di un’epoca e quindi non ne inaugurano una nuova. Riprendendo l’immagine delle “tre metamorfosi” sembra quasi che le tarantole si trovino perfettamente a loro agio nel deserto di valori, per loro il processo di metamorfosi dello spirito si dovrebbe fermare al leone, non hanno bisogno di valori nuovi, non viene prospettato un fanciullo futuro per “redimere” la modernità. La loro libertà si esaurisce nell’essere “liberi da”, morto il drago non si chiedono “per cosa” sono libere adesso. Probabilmente fanno corrispondere “valori nuovi” unicamente a “regole nuove” e loro non ne vogliono sentir parlare, nemmeno se sono chiamati essi stessi a scriverle. Ecco uno “schizzo” dell’epoca moderna, in cui la “libertà” priva di responsabilità viene ridotta a liberalità, la liberazione alla liberalizzazione.
I cuori di tarantola hanno scambiato la possibilità della libertà più grande, quella cioè di darsi valori nuovi autonomamente, con la misera sregolatezza offerta dal non darsi nessun valore. Qui si compie una trasvalutazione dei valori, il “tu devi” del cammello diventa “io voglio” ma questo “io voglio” non si decide sull’oggetto del proprio volere e così la potenziale carica liberatrice della volontà del leone si auto-estingue nell’atto del consumo sfrenato e sregolato, la volontà di potenza si riduce ad obbedienza all’istinto. “Creo dunque sono” direbbe il fanciullino annunciato da Zarathustra; “consumo dunque sono” sibilano le tarantole in ogni dove, ecco la loro libertà, libertà di consumare.

Ora viene spontaneo notare che nella nostra epoca in maggioranza assoluta sono le tarantole, la fede nel progresso dell’umanità è incrollabile, persino dopo il suicidio di intere generazioni in due guerre mondiali, persino dopo la bomba atomica si continua ciecamente a credere in due parole chiave: “crescita e progresso”. Si continua a ripetere che la “tecnica” è imparziale, oggettiva, e che sta all’uomo forgiarla in base ad ideali di giustizia ed uguaglianza. Si ignora la critica di Heidegger riguardo l’impossibilità dell’imparzialità della tecnica, quindi si arriva presto a dire che la bomba atomica non era una male “in sé”, che c’è sicuramente un modo “umano” per utilizzarla.

 Qui sarebbe interessante mettere in relazione la critica che Carl Schmitt opera sul concetto di “umanità” con quella di Nietzsche su quello di “uguaglianza” , i due concetti vengono spesso utilizzati assieme per giustificare oggettivamente interessi molto soggettivi; purtroppo non si dispone dello spazio necessario.

 Ricordiamo invece brevemente il nesso fra “tecnica” ed “uguaglianza”. “Dio creò gli uomini diversi, Samuel Colt li rese uguali”. Questa celebre frase segna il passaggio di un’epoca: questo passaggio non riguarda unicamente il campo bellico. Avviene un rovesciamento talmente importante da arrivare a toccare qualsiasi spazio della vita associata. Il passaggio di cui parlo è quello per cui non conta più la preparazione militare, l’allenamento, la forza, il coraggio o lo spirito necessario per un combattimento corpo a corpo; tutto si riduce alla velocità di esecuzione, chi arriva primo al grilletto vince (la situazione è portata oggi all’estremo con i droni per i bombardamenti comandati a migliaia di chilometri di distanza). Gli uomini vengono tutti portati allo stesso livello: il “coraggio”, cifra di distinzione che permette a  Zarathustra di scrollarsi di dosso il “nano” (Ibidem pag.183 La visione e l’enigma), è costretto a comparire sempre più raramente in una società perfettamente meccanizzata. Da quella grande nazione che chiamiamo USA è partita, ancora prima che con la rivoluzione francese, la “riscossa per l’uguaglianza”: questo paese viene difatti preso a modello come esempio di democrazia e tutto quello che succede lì (in campo economico, sociale, politico etc), in un breve periodo si ripresenta anche qui nel vecchio continente. Sempre negli USA nascono quei movimenti che Alain De Benoist nomina come portatori di un “femminismo egualitario”, movimenti che ancor oggi foraggiano la “gender theory”, una teoria “che non esiste”. Qui vi facciamo riferimento solo per far notare ancora di più come la direzione verso cui sta precipitosamente correndo la nostra società è quella dell’uguaglianza totale, l’uguaglianza figlia dell’assenza di differenze e discrepanze: “A differenza del femminismo identitario o differenzialista, che pone l’accento sulla differenza, la promozione o la riscoperta del femminile, il femminismo egualitario sostiene che sarà possibile raggiungere una vera parità fra uomini e donne solo quando nulla sarà più in grado di distinguerli tra loro” (Alain De Benoist – Oltre l’uomo e la donna Circolo Proudhon Edizioni, pag.6). Non possiamo esimerci dal cercare di trovare i punti di raccordo fra le parole del pensatore francese e quelle di Nietzsche. Quella di De Benoist è una bieca reazione o una seria critica nel solco del filosofo della volontà di potenza? Così Nietzsche riguardo la ‘vita’: “E poiché ha bisogno di altezza, ha bisogno anche dei gradini e della contraddizione tra i gradini e coloro che salgono! Salire vuole la vita e salendo superare se stessa”(Così parlò Zarathustra pag.113). Come può esserci ‘differenza’ in una società in cui le categorie maschio/femmina, uomo/donna vengono meno? Viene qui prospettata una società di individui neutri ed eguali, è forse queste la naturale evoluzione dell’antropologia cristiana fondata da San Paolo, è forse questo un passo avanti verso l’umanità unificata come “un solo gregge” del Vangelo di Giovanni? Chiudiamo questa parentesi con le ultime parole del pamphlet prima citato: “E’ il sogno di una postmodernità post-sessuale dove, non essendo riusciti a creare una società senza classi ci si accontenterà di una società senza sessi. Una società dove la ‘liberazione del desiderio’ non consiste nella volontà di liberare il desiderio, bensì nel dovere di liberarsene. Un sogno di indistinzione, un sogno di morte”. (Ibidem pag.33) Un ‘sogno di morte’, forse così Nietzsche vedeva i sogni di uguaglianza che già nel suo secolo iniziavano a farsi strada attraverso le teorie socialiste. Chiara Piazzesi sullo stesso argomento: <<… Nietzsche riconosce le idee democratiche, il socialismo e perfino il femminismo come alcune delle più forti tendenze “uniformatrici” della modernità, rivolte ad eliminare le differenze in quanto disparità, a livellare la superiorità, ad “ammansire” ogni personalità che non sia moralmente e socialmente addomesticata.>>(Carocci Editore – Nietzsche pag.148)  Quindi ora ci chiediamo: prospettiva estrema quella di Nietzsche o profezia avveratasi? Credendo di costruire una società giusta ne stiamo disegnando una senza gradini e senza differenza fra chi li dovrebbe scalare; per questo per salire in alto ormai non possiamo far altro che auto-superarci, “salire sul nostro capo”. “E se ormai ti sono venute a mancare tutte le scale, bisogna che tu sappia salire sul tuo capo: come potresti altrimenti salire in alto?” (Così parlò Zarathustra pag.178 Il viandante)


Una società “senza gradini” potremmo “abbozzarla” qui anche in un altro senso: una società in cui chi 200 anni fa non sarebbe sopravvissuto per malformazioni genetiche, deficit alla nascita o semplici malattie, oggi vive tranquillamente grazie a piccole operazioni o semplici antibiotici. “Ai brutti tempi andati di rado sopravviveva un bambino che avesse qualche spiccato, o lieve, difetto ereditario. Oggi invece, grazie all'igiene, alla farmacologia moderna e alla coscienza sociale, quasi tutti i bambini venuti al mondo giungono a maturità e si moltiplicano. Date le condizioni oggi dominanti, ogni progresso della medicina sarà frustrato da un corrispondente aumento del tasso di sopravvivenza degli individui che dalla nascita portano con sé una qualche insufficienza genetica.... Una società siffatta fino a quando potrà conservare le sue tradizioni di libertà individuale e di governo democratico? Fra cinquanta o cento anni i nostri bambini daranno una riposta a questa domanda.” (Aldous Huxley – Ritorno al mondo nuovo, pag.247) Non si vuole in nessun modo dare un’interpretazione biologistica del filosofo tedesco ma questa riflessione di Huxley ci pone di fronte degli interrogativi capitali: se ciò accade dal punto di vista biologico dal punto di vista “morale-filosofico” avviene lo stesso? Il ‘malato’ o ‘debole’ nello Zarathustra non è malato o debole fisicamente (geneticamente), questa figura è descritta nel capitolo ‘Dei predicatori di morte’ (pag.46.48). “Basta che incontrino un malato o un vegliardo o un cadavere, perché dicano <<la vita è confutata!>>. Ma soltanto loro sono confutati e il loro occhio, che dell’esistenza vede solo quell’un volto”(Ibidem pag.46) I ‘malati’ sono coloro che dicono no alla vita, sono quelli che predicano la morte in ogni dove ma non compiono mai l’estremo gesto verso se stessi, sono anche quelli che non sopportano (tragen) il ‘pensiero più abissale’, l’eterno ritorno. Qui si definisce un’altra gerarchia, sta “sopra” chi sopporta quel peso, il ‘sano’, il ‘forte’ e sta “sotto” chi si dispera e “si rovescia a terra digrignando i denti” (Gaia Scienza frammento 341). In questa prospettiva l’ultimo uomo è ‘malato’, soffre l’eterno ritorno, non lo sopporta e subisce la ‘dècadence’ senza riuscire a superare il nichilismo; l’oltreuomo è invece il ‘forte’ che grazie al coraggio che mostra nel sopportare “il peso più grande” si scrolla  di dosso il ‘nano’ e supera il nichilismo, lo sopporta, lo sostiene.

sabato 11 giugno 2016

Ci si scopre popolo - Calcio e Nazione


di Vincenzo Cerulli

Con la perfetta ciclicità che ricorda i tempi immutabili delle liturgie religiose il calcio torna a manifestarsi nella forma meno solita. Maxischermi iniziano ad essere allestiti nei giardini e nelle piazze pubbliche, pensionati nei bar fra una sigaretta e una partita a carte iniziano ad indossare le vesti da allenatore, i quotidiani sportivi tirano una boccata d’aria per il temporaneo aumento delle vendite e bandiere tricolori iniziano a spuntare come fiori fra balconi e finestre, tanto nelle periferie più abbandonate quanto nei quartieri più ricchi. Ieri la partita Francia-Romania ha aperto le danze degli Europei di calcio 2016 e gli italiani finalmente hanno l’occasione per riscoprirsi popolo. Nell’era della post-ideologia non c’è più nulla a tenere unite milioni di anime in unico corpo, non c’è un humus comune in cui coltivare un’idea di paese. Non c’è un solo partito politico nella cui idea di paese si identifichi “un popolo”, probabilmente perché nessun partito politico ha veramente un’idea di paese, tutti ripetono la stessa sostanza con una forma diversa ciascuno: qui sta la loro “differenza”, nell’esteriorità. Non esiste una religione “di stato” in cui un popolo crede sinceramente ed ingenuamente: la maggior parte degli italiani vive il cattolicesimo come catechismo, tradizione, obbligo e nient’altro, dunque non c’è niente di trascendente in cui un popolo si possa identificare, un Dio attorno a cui stringersi. Nessuna idea (le ideologie manco a dirlo) che metta in relazione realtà confliggenti per portarle a compimento in uno scopo comune, nemmeno nei movimenti o nelle forze metapolitiche extraparlamentari trovano identificazione le masse scomposte che tanto hanno influito nella storia del ‘900 con “l’acclamatio” del leader politico.  Nulla, un vuoto totale; eccezion fatta per il calcio, non qualunque tipo di calcio eh, non i campionati o le coppe di club: a tenere unito un popolo oggi ci riesce solo la Nazionale.

Vorremmo qui tracciare alcune convergenze fra il ruolo che svolge oggi la Nazionale in Italia e il Sovrano nelle opere di Carl Schmitt. Nella sua visione di “politico” Schmitt vuole assolutamente evitare che lo Stato sia il campo di battaglia delle lotte intestine fra partiti perché il risultato è il continuo stato di “bellum omnium contra omnes”: per questo si augura che nel caso d’eccezione, cioè nel momento in cui l’ordinamento giuridico vigente non riesce più a contrastare la situazione di crisi, prevalga la figura di un Sovrano che decide quale sia il bene comune in quel momento e qual è il modo migliore per perseguirlo. Riassumendo all’osso potremmo dire che il Sovrano è colui che relativizza i conflitti interni per portare poi il conflitto all’esterno dei confini nazionali, dà forma ad un popolo e unifica le parti contrastanti. Nel Sovrano il popolo si identifica e lo acclama, non ci  sono più diversi schieramenti in lotta fra loro per il potere. Nella Nazionale possiamo scorgere una fenomenologia simile: da tutti i club del mondo i migliori giocatori della stessa nazionalità si uniscono per formare una squadra “d’unità nazionale”. Fino a Maggio sguardi velenosi, gomitate ed insulti (fra De rossi e Candreva, fra Barzagli e Insigne, fra De Sciglio e Bernardeschi etc) ma quando si indossa la maglia azzurra viene sospesa la “lotta intestina” di hobbesiana memoria, finiscono le conflittualità fra giocatori di club diversi perché c’è un “nemico” contro cui ci si unisce: una Nazionale avversaria. Il conflitto non finisce, viene semplicemente spostato dall’interno all’esterno. Attorno a questa Nazionale si unisce tutto un popolo, le diverse fedi calcistiche vengono sublimate in un’unica fede: quella negli undici azzurri.


Pasolini in un’intervista diceva questo: “Il calcio è l'ultima rappresentazione sacra del nostro tempo. È rito nel fondo, anche se è evasione. Mentre altre rappresentazioni sacre, persino la messa, sono in declino, il calcio è l'unica rimastaci. Il calcio è lo spettacolo che ha sostituito il teatro”. Noi però vorremmo aggiungere che oltre ad essere l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo, il calcio è anche e soprattutto fondamento coesivo di unità popolare. Il rito di cui parla Pasolini non è privato, individuale, moderno insomma; il rito-calcio viene consumato in piazza, allo stadio o in un pub con gli amici, la fruizione privata-individuale è rarissima: il calcio è un rituale iper-popolare. I tricolori vengono esposti ciclicamente ogni due anni (sedi istituzionali a parte), questo significa che evidentemente quella bandiera alla maggior parte degli italiani fa pensare prima ad una palla che corre su un prato che a sentimenti patriottici di vario tipo. 

Il calcio è grande e Pasolini è il suo Profeta.

martedì 7 giugno 2016

Un invito alla lettura: Le cronache di Narnia


di Vincenzo Cerulli

“Le cronache di Narnia” sono una raccolta di 7 racconti scritti fra il 1950 e il 1956 da Clive Staples Lewis. Possiamo ascriverli sotto il genere di “fiaba-favolistico” ma non dobbiamo escludere dalla catalogazione un particolare che è fondamentale e nel quale affonda le radici la superiorità che ha la storia di Narnia (a mio parere) rispetto a molte sue simili. Questo particolare sta nel fatto che ogni racconto è vivissimamente attraversato da immagini cristiane e sono proprio questi riferimenti così spontanei alla religione in cui Lewis credeva profondamente che la rendono unica nel suo genere. Prima di proseguire credo sia doveroso un chiarimento, che Lewis ebbe cura di fare, riguardo il genere fiabesco in generale. Nella postfazione alla raccolta, intitolata “Tre modi di scrivere per l’infanzia”, l’autore rivendica fermamente la sua inclinazione a preferire tal genere piuttosto che gli altri. Elegantemente (come solo un grande scrittore sa fare) si prende gioco di quelli che a tutti i costi devono dimostrare di essere adulti: “I critici che usano l’aggettivo <adulto> come un complimento anziché come un semplice termine descrittivo, non possono essere considerati adulti in prima persona. Preoccuparsi di sembrarlo, ammirare le cose dei grandi perché sono da grandi, arrossire al sospetto di passare per infantili sono i classici segni della fanciullezza e dell’adolescenza. […] Diventato uomo ho messo da parte le paure infantili, compresa quella di sembrare infantile e il desiderio di dimostrare che sono cresciuto”. Lewis continua poi in questa doverosa e nobile battaglia in difesa della fiaba in questo modo: “Ci accusano di arresto dello sviluppo perché non abbiamo perso i gusti che avevamo da ragazzi, ma l’autentico arresto non può considerarsi nel rifiuto di abbandonare un patrimonio, bensì in quello di acquisirne uno nuovo” , sono sicuro che tutti converrete perché poi continua “Oggi mi piacciono Tolstoj, Jane Austen e Trollope come le fiabe, il che è una crescita; tuttavia se avessi rinunciato alle fiabe per far posto ai romanzieri non potrei parlare di crescita ma solo di un cambiamento nei gusti. Un albero cresce perché si formano nuovi anelli, un treno che lascia una stazione per arrivare alla prossima non cresce affatto[…]”. Ci sarebbero molte altre frasi dell’autore che vorrei riportarvi ma mi sto rendendo conto che già quelle che ho lasciato qui sopra forse sono troppe, per questo vi invito sinceramente a leggere almeno la postfazione (fatto ciò, leggere Narnia sarà una naturale conseguenza). Scusatemi per questo exscursus ma credo sia obbligatorio almeno avvicinarsi a capire l’idea di “fiaba” che aveva Lewis prima di gettarsi a capofitto nell’analisi dello splendido mondo da lui creato, quello di Narnia. Più in alto ho accennato a quelle forti immagini cristiane che si susseguono per tutto l’arco narrativo dell’opera; ma ad essere più precisi non sono solo immagini, sono la vera e propria colonna vertebrale dell’intero universo narniano, la sua unica condizione d’essere. Lewis non scrisse i libri nell’ordine in cui sono poi stati disposti dagli editori, giunto al terzo libro credeva di aver dato sfogo a tutta la sua indole di “subcreatore” (J.R.R.Tolkien “On Fairy Stories”, in Essays Presented to Charles Williams – 1947) ma così non fu. Decise poi infatti, grazie a Dio, di approfondire l’universo che in realtà aveva solo abbozzato. Fu così che scrisse racconti cronologicamente precedenti, successivi e persino contemporanei all’arco narrativo della triade centrale precedentemente pubblicata. Dunque, perché parlavo di “unica condizione d’essere”? Vi basti pensare che l’immagine preminente del primo libro (ordine cronologico) “Il nipote del mago” è la genesi di Narnia. Parlo di genesi perché non è una semplice creazione, i rimandi a quella biblica sono chiari, nitidi e di incommensurabile bellezza. Se avete sentito parlare di Narnia avrete di certo sentito parlare di Aslan il leone mitico “figlio dell’imperatore d’Oltremare”. Aslan è Dio, l’Onnipotente che, ruggendo, intona una melodia struggente e sublime, che ci immerge in una nostalgia senza tempo proprio perché posizionata all’alba dei tempi. Narnia nasce dal ruggito di Aslan, i suoi animali parlanti, i suoi animali muti, i fiumi, le montagne, i mari, persino la luce del giorno, tutto nasce dalla forza della melodia di Aslan. Ma Aslan è anche Cristo, e come Cristo si immola per una colpa che non ha. Si fa sacrificare dalla Strega Bianca sulla Tavola di Pietra per poi risorgere all’alba del giorno dopo e risorge perché: “[…] quando al posto di un traditore viene immolata una vittima innocente e volontaria, la Tavola di Pietra si spezza e al sorgere del sole la morte stessa torna indietro”. Questo dice Aslan, una volta risorto, a Lucy e Susan. Aslan è anche agnello. Alla fine dell’ultimo racconto della trilogia centrale i protagonisti, giunti ai confini del mondo, si trovano di fronte un agnello bianchissimo, il cui candore è accecante. Lucy al Suo cospetto dirà: “Per favore agnello, è questa la strada per il regno di Aslan?” e l’agnello gli rispose “Non per voi, troverete la strada per il regno di Aslan nel vostro mondo”. Così Edmund sbalordito gli chiese se anche nel loro mondo ci fosse una strada che porti ad Aslan e l’agnello rispose: “In ogni mondo esiste una strada che conduce al mio regno”. L’agnello poi si tramuta in Aslan sotto gli occhi increduli dei ragazzi a cui poi dirà che devono imparare a riconoscerlo anche nel loro mondo. Aslan-Dio quindi trascende le normali realtà spazio-temporali, alle quali noi siamo incatenati, per trasmettere il suo messaggio di salvezza. La salvezza però, come ci insegna la Bibbia, non spetta a tutti e così Lewis nell’ultimo libro “L’ultima battaglia” illustra anche ai più piccoli come al tempo dell’Apocalisse saremo tutti tenuti a render conto del nostro operato nella vita terrena, quella che Aslan chiamerà il “sogno” o “Terra delle ombre”. Nella descrizione che ci farà poi Lewis della vita dopo l’apocalisse c’è un forte influsso neoplatonico, e questo ce lo spiegherà bene Diggory, protagonista de “Il nipote del mago” con queste parole rivolte a Peter, il Re Supremo: “[…] Ma non era la vera Narnia: aveva un inizio e una fine, era l’ombra o la copia della Narnia autentica, che invece esiste ed esisterà per sempre”. Ci sono molte altre figure che meriterebbero di essere trasposte fra queste righe ma se continuassi toglierei qualcosa al piacere della vostra lettura. Un’ultima però ci tengo a riportarla, è quella di Emeth, un guerriero di Calormen (un paese più volte in guerra con Narnia). Emeth non crede in Aslan, il suo popolo venera un Dio diverso da quello dei narniani, un Dio oltre lo sconfinato deserto che separa le terre di Archen da Tashbaan, questo Dio si chiama Tash. Emeth dirà agli altri ragazzi protagonisti della storia : ”[…] Da quando ero bambino mi considero un devoto servitore di Tash e il mio più grande desiderio è stato conoscerlo di persona. Il nome di Aslan, invece, mi è sempre stato odioso”. Emeth avrà poi la fortuna di incontrare Aslan invece; e Questo gli dirà: “ Figlio, tutto quello che hai fatto per Tash lo hai fatto per me”. Non entro nei particolari della vicenda perché l’incontro fra Aslan ed Emeth è uno dei più lirici dell’intera opera e potrei rovinarlo completamente cercando di riportarlo qui; resta il fatto però che è quanto mai attuale. Lewis, che mai avrebbe osato immaginare la situazione socio-politica attuale, ci ha lasciato anche questo monito mai tanto urgente quanto oggi, quello di evitare lo scontro di civiltà (mascherandolo, peraltro, come scontro di religioni). Questa lettura porta noi italiani a confrontarci con una realtà che la maggior parte di noi dopo il catechismo da per scontata: il cristianesimo. Su di me in qualche modo questo confronto sta operando e continuerà ad operare, spero con tutto il cuore che sarà così anche per chi, fra di voi, lo leggerà. Ora vi lascio, nella speranza che qualcuno fra di voi ha già preso a cuore la storia di Narnia, con un’ultima frase di Lewis che seppellisce definitivamente la barbara battaglia contro il genere della favola: “ Sarei tentato di stabilire la regola in base alla quale una storia per bambini che piaccia solo ai bambini non sia un granché: quelle veramente affascinanti durano. Detta in altri termini, un valzer che ci piace solo mentre lo balliamo non è un bel valzer”.

(Articolo pubblicato originariamente sul N°1 della rivista "La Voce del Padrone")

venerdì 3 giugno 2016

Una seduta spiritica spiritosa


di Menno Gabel

Lo scorso 13 maggio, ultimo giorno dei Lemuria –la notte di Halloween del calendario romano– a casa Prodi hanno organizzato la consueta seduta spiritica per fornire a Piercarlo Padoan informazioni di prima mano sulle prospettive di sviluppo dell’economia italiana, e per la speranza che uno spirito caritatevole ed esperto potesse suggerire a Gentiloni e alla Mogherini qualche sensata strategia di medio periodo per la politica estera rispettivamente italiana ed europea, con magari un’indiscrezione sul futuro presidente degli States. Dei risultati della serata spiritica è trapelata finora solo una ghiottissima e inattesa sorpresa: la buonanima purgante di Giuseppe Gioacchino Belli ha inoltrato dalle sue sedi transacherontiche un transapocrifo sonetto “a specchio” (con una quartina aggiuntiva dopo le due terzine) su papa Francesco, una pasquinata impressionante che, giuntaci per vie traverse ma  verificate e attendibili (le stesse per intenderci che seppero comunicare il collegamento di Aldo Moro rapito e ancora vivo con Gradoli, via o paese che fosse), condividiamo con i nostri curiosi lettori.


A Roma chi se fa l’affari sua
E poi fa créde d’èsse un sanfrancesco
A daje un nome in schietto romanesco
Se chiama paraculo, bontà sua.

Tra segni da toccasse li cojoni   *
Padre Bergojo è mo’ papa Francesco
Co’ li massoni ch’offrono er rinfresco
Ai gesuiti e a tutti i fratelloni.

Se un Benedetto dice “Me n’andrei”  **
Cor core più sanguigno de ‘na rapa,
Ecco Bergojo ch’a maggior gloria dei  ***

Se fa alliscià’ fino che ce s’arrapa, 
Lui, principe de’ novi farisei,   ****
C’ortre che paraculo è parapapa.  *****

Ognuno è santo alla misura sua:
Tanto piena è ’na botte che un ditale,
Non meno dell’Atlantico un pitale,
noce o nave piena da poppa a prua.

San Carlo Boromeo c’ha ’r Sancarlone   ******
San Pietro ha dato er nome ar sampietrino.   *******
Bergojo, come è scritto ner destino,
Lo chiameranno tutti Ber…gojone.   ********



*   Si allude probabilmente al fulmine che colpì la Cupola di San Pietro nei giorni dell’ultimo conclave, o alla croce crollata con morto in Valcamonica pochi giorni dopo la canonizzazione bergogliana di Karol Wojtyla, o forse alla colomba liberata dal pontefice all’Angelus e assalita da un corvo, auspicio funesto molto significativo dalle parti dell’ Acheronte, e ben degno di essere espiato col volgare rito apotropaico della toccata testicolare.
**   “Il me n’andrei” , secondo uno dei presenti all’evocazione spiritica, sarebbe stato sottolineato dall’anima del  Belli con indicibili sghignazzi e allusioni al ben più travagliato “rifiuto” di Celestino V.
***   Ad maiorem  Dei gloriam  è come si sa uno dei motti dei gesuiti.
****   Inf. XXVII, 85 : la celebre perifrasi dantesca per  Bonifacio VIII.
*****   Parapapa alluderebbe alla presunta dubbia legittimità dell’elezione dell’attuale pontefice: falso papa, pseudopapa
******   Il Sancarlone è la statua colossale (35 m) innalzata ad Arona, nel Novarese, in onore di San Carlo Borromeo.
*******   Il Belli gioca qui con l’antifrasi popolare romana che mette in rapporto semantico l’umile selcio delle pavimentazioni stradali con il ruolo di Pietro come “testata d’angolo” dell’edificio della chiesa cattolica.

******** I puntini di sospensione (che tanto spiacevano a Umberto Eco) sono stati posti per registrare il fatto, testimoniato dai presenti alla seduta spiritica in casa Prodi, che la voce della buon’anima del Belli là avrebbe fatto una lunga pausa irriverente e allusiva spezzando la parola proprio in quel punto. Quindi tre punti non pleonastici voluti proprio dall’autore.