domenica 20 dicembre 2015

Nicola Bombacci: rivoluzionario incendiario



di Vincenzo Cerulli

Parlare di Nicola Bombacci comporta dei rischi. In queste righe non si vuole esaurire la biografia di Bombacci, per un’impresa del genere è richiesta una cura delle fonti ed una ricerca storica di cui attualmente non si dispone; l’autore scrive per debito morale, per strappare definitivamente dal cadavere di Nicolino quell’infame cartello con su scritto “super-traditore”. Chi scrive a riguardo sa già sempre che riceverà delle critiche aprioristiche da parte di chi non riesce ad accettare che un uomo possa essere andato al di là del proprio credo politico, di facili sicurezze economiche, dei propri affetti e perfino delle proprie amicizie, pur di difendere, fino alla morte, la classe operaia. Bisogna però prendere coscienza del fatto che un uomo che ha sacrificato tutte le proprie forze fisiche ed intellettuali, per tutto l’arco della propria vita, in favore del proletariato, meriti di essere ricordato con l’onore che gli spetta al di là della vulgata media che rintrona da ambo i lati. Dunque riesumiamolo, senza fronzoli di sorta o anacronistici rancori.
Nicola nasce a Civitella di Romagna il 24 Ottobre del 1879. Fra i dirigenti socialisti durante il I conflitto mondiale e nell'immediato dopoguerra, sposa Lenin e la Rivoluzione d’Ottobre e contribuisce ad infiammare quegli anni di proteste e speranze accendendo le folle proletarie che lo adoravano. Abbandona il partito socialista, la cui maggioranza non aveva intenzione di applicare il programma leninista ed era incline ad un riformismo che lui e i suoi più stretti compagni non potevano più tollerare. Così fonda il partito comunista assieme a Gramsci, Bordiga, Fortichiari, Terracini e Damen al teatro San Marco. Purtroppo in quegli anni le occasioni mancate furono molte, troppe, i tempi erano fertili per una rivoluzione sulla scia di quella russa, il disordine era grande; ma a sfruttarlo meglio furono i fascisti, questo non può essere negato. Proprio per questa mancanza di pragmatismo, in questo non riuscire a cogliere le occasioni che il periodo storico proponeva, Bombacci criticava aspramente il partito da lui fondato e diventava sempre più inviso agli altri membri dirigenti. Togliatti gli rimproverò questo aspetto del carattere. Del romagnolo non gli andava giù l’eccessiva tensione pragmatica, quell'enorme sforzo (assente soprattutto oggi) di coniugare teoria e prassi in una forma realizzabile. Salito al potere Stalin, e cambiati gli equilibri di potere all’interno del PCI, nel ’27 viene espulso dal partito che lui stesso aveva fondato per “indegnità politica”. Così Nicolino si trovò solo, il socialista rivoluzionario di cui gli squadristi fascisti nel ’22 cantavano: “ Con la barba di Bombacci, ci farem gli spazzolini, per lucidar le scarpe di Benito Mussolini!” era stato abbandonato dai suoi compagni di lotta. Non ricevette mai la tessera del PNF ma dialogò spesso con Mussolini e tutto il paese fascista, soprattutto grazie alla rivista che il Duce gli lasciò fondare: “La Verità” (“Pravda” in russo) operante dal ’36 al ‘43.E’ merito suo se l’Italia fascista fu il I Stato al mondo a riconoscere ufficialmente la nuova Russia comunista. Questa e molte altre manovre diplomatico-economiche da lui caldeggiate esprimono nitidamente la sua forte avversione per il capitalismo anglo-americano e per lo strapotere coloniale di Francia e Inghilterra. Fino alla fine resterà accanto al Duce per difendere gli operai. Vedeva nella repubblica sociale la possibilità di attuare il socialismo come lui lo intendeva, senza interposizioni di plutocrazie, massoni e decisioni del Re. Purtroppo nemmeno qui il suo sogno si realizzò: la tremenda crudeltà di alcune frange di repubblichini, soldati tedeschi e le ingerenze di una parte del governo non resero possibile la socializzazione totale della vita pubblica da lui agognata per oltre quarant’anni. Pochi giorni prima della capitolazione finale, davanti ad una folla in delirio di tremila operai, cantò per l’ultima volta i suoi ideali più alti e incitò tutti a resistere in quella “dura ora che la Patria vive”. Era il 15 Marzo. Una quarantina di giorni dopo Bombacci salì sulla stessa macchina di Mussolini per organizzare l’ultima resistenza nella Valtellina. Descrive l’episodio il figlio di Mussolini, Vittorio, quella sera in macchina con loro: ”ho pensato al destino di questo uomo, un vero apostolo del proletariato, un tempo nemico accanito del fascismo e ora a fianco di mio padre senza alcun incarico né prebenda, fedele a due capi diversi fino alla morte”. Perché è proprio per che questo che Nicola Bombacci è stato seppellito dalla storia, il suo oltrepassare le dicotomie statiche e fisse (per questo oggi pericolose, perché in quanto tali fissano e anestetizzano il dibattito politico) di comunismo/fascismo, destra/sinistra lo rende impossibile da categorizzare all'interno di un manuale e la sua parabola politica è oggetto di dibattito solo in ambienti privilegiati. Il libro di Daniele Dell’Orco (Nicola Bombacci, tra Lenin e Mussolini) ce ne restituisce una figura dignitosissima, ereditiamo un uomo più grande delle ideologie del suo tempo ed è proprio questo un motivo su cui riflettere. Superare le dicotomie è oggi più urgente che mai. Superarle non significa metterle da parte; significa piuttosto mettere al centro l’uomo politico e fare in modo che esse siano dei dispositivi a cui ricorrere e non viceversa.

lunedì 14 dicembre 2015

Carte scoperte: il fronte repubblicano ferma quello Nazionale


di Simone Mela

Alla fine c’è stata la “sentitissima riflessione” degli elettori francesi durante la settimana che ha preceduto la seconda tornata prevista da un sistema elettorale maggioritario a doppio turno. Appena una settimana fa Il Front National si era imposto in sei regioni su tredici registrando risultati clamorosi. In Nord-Passo di Calais- Piccardia e in Provenza-Alpi- Costa Azzurra, dove erano candidate rispettivamente Marine e sua nipote Marion Le Pen, la fiamma tricolore aveva varcato l’incredibile soglia del 40% e si era affermata come primo partito nazionale con il 29,5% dei consensi. La risposta del “sistema” però non si è fatta attendere. Il primo ministro Manuel Valls, socialista, ha paventato l’idea di una guerra civille nell’eventuale caso che il Fn si fosse riconfermato, provocando, così facendo, una maggior affluenza (il 58,5% contro il 51% di domenica scorsa) di elettori che, spinti dalla paura dello “spettro fascista” si sono recati di corsa alle urne. In più, sempre Valls, in ottemperanza al motto socialista del “Non votiamo per qualcuno, ma perhé qualcuno non ce la faccia” ha ammonito i candidati del suo partito nelle regioni in cui erano arrivati terzi di ritirarsi, spianando la strada di fatto ai repubblicani di Sarkozy. O fronte repubblicano o morte. Si potrebbe riassumere così il principio che hanno fatto trapelare le istuzioni francesi. E così è stato. Il Fronte Nazionale non conquista nessuna regione. Marine cede il passo al candidato gollista Xavier Bertrand che prende più del 58%, stessa storia in Alsazia-Champagne-Ardenne-Lorena dove era candidato il numero due del FN, Florian Philippot, e nel sud-Est che vede Marion sconfitta con il 44,2% dei voti contro il 55,8% del repubblicano Christian Estrosi, ex sindaco di Nizza.
Il fronte repubblicano batte Il Fronte Nazionale ma la guerra è appena cominciata. Il colpo si è fatto sentire e come. La cosiddetta alleanza UMPS ha retto questa volta ma in futuro non è detto che andrà sempre così. Il prezzo che socialisti e repubblicani hanno dovuto pagare, infatti, è stato quello di aver dimostrato che alla fin fine sono due facce della stessa medaglia, due fazioni che sostengono il progetto neoliberista europeo, due fazioni asservite alla NATO e all'UE, due fazioni che hanno destabilizzato la Libia e cercato di destabilizzare la Siria, e ancora, due fazioni che hanno rifiutato il dialogo con Putin fino a quando, dopo i fatti del 13 novembre scorso, si sono trovati con le spalle al muro. La Le Pen e il suo partito mettono in discussione tutto questo rilanciando un programma di sovranità nazionale moderno. Fanno paura. Una paura che non è quella del ritorno al manganello come sostiene il circo mediatico, ma quella connessa alla frantumazione di questo orribile quadro mondialista ed europeo. La Le Pen all'Eliseo fra diciotto mesi, in occasione delle presidenziali, rappresenterebbe la prima luce accesa in questa Europa buia e arida. Il popolo francese ha cambiato gli equilibri di questo continente più di una volta e chissà che non sia destinato nuovamente nell'impresa. Spero che la prossima volta abbia un po’ più di coraggio dando fiducia all'unico partito che lo difende e sostiene, partito che, peraltro, non ha mai governato e che quindi ha tutto da dimostrare.
Chiudo dicendo che se dovesse andare come ci si aspetti, mi auguro che il popolo italiano non si faccia trovare impreparato all'appuntamento con la Storia.

martedì 1 dicembre 2015

Tour Saint Jacques


di Menno Gabel

«Tristo l' allievo che non supera il maestro»
Spesso è il destino delle cose inanimate che ci permette di capire meglio, senza temere di essere depistati da ipocrisie, rimozioni, ripensamenti di comodo, ciò che veramente gli uomini rappresentativi di un’epoca hanno apprezzato o disprezzato, amato o odiato.
Al centro di un giardino al centro di Parigi si slancia al cielo la Torre di San Giacomo, o per meglio dire il campanile superstite della chiesa di Saint-Jacques-de-la-Boucherie, il venerato santuario gotico demolito nel 1793 dalle volonterose manovalanze rivoluzionarie della Rivoluzione Francese. Dicono che il campanile fu risparmiato per il suo particolare valore architettonico. Lo dicono gli eredi dei demolitori, ma noi sappiamo che il campanile si salvò non perché reliquia anche degli esperimenti di Blaise Pascal sulla pressione atmosferica, ma perché qualche industrioso borghese aveva intuito che la torre sarebbe stata più vantaggiosamente riconvertita in redditizia Tour à plomb, fabbrica di palle di moschetto per le armate della Repubblica secondo il processo inventato appena dieci anni prima dall’ ingegnere Watts di Bristol. Le campane rese inutili dall’abolizione delle feste religiose, delle settimane e delle domeniche sarebbero poi diventate cannoni.
La Tour Saint Jacques, oggi ammessa dall’UNESCO a far parte del patrimonio artistico dell’Umanità, è un significativo esempio di come la Rivoluzione Francese ha saputo valorizzare il patrimonio artistico ereditato dalle generazioni prerivoluzionarie. Quando anche i nostri intellettuali si indignano di fronte alla distruzione dei Buddha di Bâmiyân o del Tempio di Bel a Palmira devono assolutamente ricordarsi che il vandalismo non l’hanno certo inventato i Vandali, ma è una parola inventata apposta dall’Abbé Grégoire, un vescovo rinnegato messosi al servizio della Rivoluzione, per cercare di scoraggiare e frenare un po’ la sistematica spoliazione e distruzione di tantissime opere d’arte che hanno fatto la stessa fine del santuario di cui fu parte il campanile riconvertito a fabbrica di palle e pallini da guerra e da caccia.
Se pensate che sia irriguardoso confrontare il comportamento dei “tagliagole” dell’ISIS con i ghigliottinatori della Rivoluzione da cui anche Hollande è orgoglioso di discendere, pensate al destino dell’Abbazia di Cluny.
Nel 1789 quell’arcipelago di capolavori e tesori divenne “bene nazionale” a seguito del decreto del 2 novembre di quell’anno che confiscò i beni della Chiesa. Cominciava un tempo micidiale per gli edifici monastici e per l’abbazia. I Rivoluzionari nel 1791 distrussero con le mine gli edifici dopo averli svuotati di tappezzerie, suppellettili e oggetti di culto da rivendere al dettaglio. Gli archivi furono bruciati nel 1793 e la chiesa abbaziale fu abbandonata ai saccheggi. La tenuta dell’abbazia nel 1798 fu venduta per più di due milioni di franchi. L’8 maggio 1810 fu fatta saltare la facciata e il grande portale. L'abbazia fino al 1813 fu usata come cava di pietra per costruire le case del borgo vicino. Dell’edificio originario così non resta oggi che l’8%.
I “tagliagole” dell’ISIS sono diventati quasi altrettanto bravi dei loro esemplari poco occulti committenti.

(pubblicato originariamente sul numero 1 della rivista "La Voce del Padrone")

Compendio della quinta conferenza


di Simone Mela

Lavoro salariato e capitale" è una raccolta di cinque articoli che Karl Marx pubblicò per la Gazzetta Renana nell'aprile del 1849, i quali articoli prendevano come oggetto le rispettive cinque conferenze che il filosofo di Treveri tenne all’“Associazione degli operai tedeschi” di Bruxelles affinché il contenuto delle sue ricerche scientifiche potesse essere accessibile e divulgato presso il grande pubblico.
Quello che vorrei tentare di fare, con le necessarie dovute proporzioni, è di riproporre nella maniera più semplice il contenuto della quinta conferenza. In essa Marx si pone lo scopo di analizzare l’incidenza che la crescita del capitale produttivo ha sul salario. Il salario è il prezzo della merce forza-lavoro che l’operaio cede al capitalista. Questa merce viene pagata in base ai costi necessari per produrla, ossia i costi necessari per mantenere in vita l’operaio. Si potrebbe dire che il dominio del capitale produttivo abbia una sorta di effetto domino. Il primo passo prevede l’eventuale aumento del capitale produttivo; aumentando il capitale produttivo cresce la dimensione del capitale e il numero dei capitalisti. Cresciuto il numero di questi ultimi si crea una concorrenza che sarà vinta dal capitalista che venderà a prezzi migliori. Per fare ciò deve aumentare la forza produttiva e quindi mettere a punto la divisione del lavoro combinata al miglioramento dei macchinari. Questo che cosa significa? Significa che tanto più grande diventa il numero degli operai tra i quali viene diviso il lavoro, tanto più vantaggioso diventa il lavoro. Le innovazioni messe in atto da quel capitalista verranno universalizzate dagli altri capitalisti e quindi per venirne a capo nuovamente, si dovrà attuare un’ulteriore divisione del lavoro e utilizzare macchinari migliori. Badate bene che questo processo è infinito e ha come risultato quello di rendere il lavoro dell’operaio sempre più semplice e monotono, in quanto ogni operaio compierà il lavoro di cinque, dieci, quindici operai. Inevitabile a questo punto che il nostro operaio crei la concorrenza con altri operai trasformando questi ultimi in altrettanti concorrenti perché se questo si venderà a prezzi sempre più vantaggiosi per il capitalista, allora anche gli altri operai saranno costretti a vendersi alle stesse condizioni. Morale della favola? La forza-lavoro, che è una merce, più sarà semplice e priva di sforzi fisici e mentali, più bassi diventeranno i costi di produzione della merce forza lavoro. Conclusione? Maggiore è il capitale produttivo, minore sarà il salario. Lo stesso vale per l’uso di macchinari sempre più avanzati. Questi, infatti, spazzeranno via tutti quegli operai specializzati, omologandoli agli altri operai: semplici forze produttive. Abbiamo cominciato il nostro discorso dicendo che i capitalisti entrano in concorrenza tra loro, anzi in una guerra industriale, come la chiama Marx; questa guerra, paradossalmente, viene vinta dal capitalista che riuscirà a sfoltire, tramite il licenziamento, e non ad aumentare le schiere di operai a sua disposizione. Questo per il semplice motivo, già accennato prima, che i macchinari provocano il licenziamento di operai, i quali si troveranno a lavorare nelle fabbriche di quegli stessi macchinari che hanno causato il loro licenziamento. L'operaio finisce per occupare, tristemente, il ruolo di macchina imperfetta che darà vita a macchinari perfezionati.

(pubblicato sul numero 1 della rivista "La Voce del Padrone")

L’economia per la guerra o la guerra per l’economia?


di Valerio D'Agostini
Fin da subito, da quando ha imparato ad organizzarsi socialmente, l'uomo ha sempre avuto l'istinto animale della conquista e della dominazione.
Ciò che differenzia i conflitti militari dal momento precedente a quello successivo l'industrializzazione è la differente posizione dell'economia nel guerresco. Partendo dal fatto che la guerra si è sempre svolta per motivi economici e geopolitici (i quali sottintendono, quasi sempre, comunque altri motivi di natura economica), si è sempre visto, dall'antica Grecia fino alla Guerra dei Sette Anni, che poche erano le potenze politiche impegnate nei conflitti, le stesse che potevano permettersi un grande esercito ben organizzato e addestrato in grado da sottomettere quelle popolazioni che poi sarebbero state inglobate in un primo, embrionale, progetto cosmopolita. Era quindi prettamente l'economia che serviva alla guerra: più era ricca una potenza, migliore sarebbe stato il suo apparato militare e quindi tanto maggiore la sua portata di influenza.
Con l'avvento dell'industrializzazione e del libero mercato questa tendenza è andata invertendosi, perché crescendo sempre di più la concorrenza economica non solo tra Stato e Stato, ma tra continente e continente, la guerra viene sempre più vista come elemento di riscatto da una situazione di declino o come mezzo per accrescere ancora di più la propria influenza su territori spesso molto distanti, e quindi non più legati anche a ragioni di coesione territoriale in una determinata zona come, invece, accadeva prima. Per questa sua capacità di smuovere gli assetti politici, e quindi economici, altrimenti destinati ad essere ciò che viene definita "stagnazione economica" in senso lato, la guerra è diventata, in un certo senso, il processo di avvio di quell'intero sistema di interessi volto al raggiungimento del profitto sotto forma di svariati approcci, anche chiamato economia.

(pubblicato originariamente sul numero 1 della rivista "La Voce del Padrone")

Francia apriporte della Germania


di Simone Mela

Nell'immaginario comune la Germania, almeno apparentemente, viene considerata la locomotiva di Europa, la prima potenza economica europea, un modello irraggiungibile per noi “poveri, furbi e pigri italiani”. L'origine di questo primato va sicuramente individuata nella creazione dell’unione monetaria e quindi nell'introduzione del famigerato euro. Anche centoquarantacinque anni fa (1870) lo scenario in Europa era molto simile. Quello che cercherò di raccontarvi è un curioso ritornello della storia in base al quale il dominio teutonico sul continente è legato a doppio filo con un’altra nazione: limitrofa e da sempre odiata. La Francia. Vediamo perché.
Nel 1870, dal 31 agosto al 2 settembre, a Sedan (Francia nord-ovest), si combatté la guerra franco-prussiana tra la Prussia di Bismark e la Francia di Napoleone III. La battaglia fu vinta nettamente dal Cancelliere di ferro e l’imperatore francese, fatto addirittura prigioniero dai prussiani, fu costretto a capitolare. La Prussia riuscì ad annettere le regioni francesi dell’Alsazia e della Lorena che andarono a completare il processo di unificazione intrapreso dalla Prussia, il quale portò alla creazione del moderno stato tedesco. Sviluppo economico e incremento demografico permisero alla Germania di candidarsi per il posto di potenza egemone europea che era occupato dalla stessa Francia e prima ancora dalla Spagna. Benedetto Croce a conferma di quanto detto scrisse nella "Storia d’Europa nel secolo decimonono": <<La guerra del ’70, che fu una sequela quasi ininterrotta di trionfi militari, attuò l’unione degli stati meridionali con la Confederazione del nord, [...] Sorgeva così la potenza e, al luogo di quella francese, la preponderanza tedesca nel continente europeo>>. La Francia rappresentò l’ultimo ostacolo da superare prima della completa unificazione della Germania e del successivo dominio sull'Europa della stessa.
Circa centoventi anni dopo si presenta, come detto, se non identico uno scenario molto simile. Siamo a cavallo fra gli anni ’80 e ’90. Questa volta non viene fatto prigioniero nessuno (semmai lo saranno i popoli in seguito), non si combatté nessuna guerra: si tratta di un accordo fra il presidente francese François Mitterrand e il Cancelliere tedesco Helmut Kohl. Dalla fine della seconda guerra mondiale la Germania era divisa in due: la Repubblica federale tedesca a ovest e la Repubblica democratica tedesca a est. Il blocco sovietico si stava dissolvendo. Nell'estate 1990 venne firmato tra la BRD e la DDR l’accordo di riunificazione e il 3 ottobre ebbe compimento la definitiva unione politica della Repubblica federale tedesca. Ma in che modo la Francia contribuì alla riunificazione della Germania e alla relativa leadership ottenuta in seguito? La paura. Il ricordo della seconda guerra mondiale non si era ancora del tutto dissolto. Una Germania unita avrebbe rappresentato la terza potenza mondiale dietro USA e Giappone. Il presidente francese Mitterrand la notte stessa dell’unione politica, come ci racconta Vladimiro Giacchè, annota al suo segretario Attali che bisognava stemperare la Germania a tutti i costi. “Il marco è per la Germania, quello che la bomba atomica è per la Francia’’, si diceva all'epoca nei corridoi dell’Eliseo. La ragnatela che, secondo Mitterrand, poteva imbrigliare la neonata Repubblica tedesca impedendole di decollare era una maggiore integrazione europea. Da qui il trattato di Maastricht nel 1992, voluto da Mitterrand, e la successiva moneta unica. Si trattò di un accordo dunque. La Francia appoggiò la riunificazione tedesca ma in cambio chiese alla Germania di rinunciare al suo tanto amato quanto potente marco. A riguardo Peer Steinbrück, ex capo del Partito Socialdemocratico tedesco (SPD), scrive in un suo libro: <<L’abbandono del marco tedesco in cambio di un euro stabile è stata una delle concessioni che hanno aperto la strada alla riunificazione tedesca>>, o ancora, Hubert Védrine, consigliere del presidente Mitterrand disse: <<Mitterrand non voleva una riunificazione tedesca senza un progresso nell'integrazione europea>>.
Come sostiene Paolo Becchi, si cercò di europeizzare la Germania ma si finì per germanizzare l’Europa. Germanizzare l’Europa perché, tanto per dirne una, si è voluto imporre il modello tedesco basato sulla riforma del mercato del lavoro di Schröder: la Germania ha aumentato la produttività ma non ha trasferito niente sui salari dei suoi cittadini basando, quindi, tutto sull'esportazione. In questo modo i paesi meno produttivi dell'Eurozona per recuperare competitività, essendo impossibile svalutare la propria valuta nazionale a causa della moneta unica, devono svalutare i salari (le cosiddette riforme strutturali) causando forti squilibri dovuti al calo della domanda interna e della produttività. La Francia voleva imbrigliare la Germania ma ha finito per imbrigliare tutti noi.
Le guerre non si combattono più solo con cannoni e fucili ma anche con i trattati e così, come nel 1870 i francesi hanno spianato la strada, magari indirettamente, al dominio tedesco in Europa. Visto che Sedan ha acceso nazionalismi che sono sfociati in due guerre mondiali, speriamo che l'Eurozona si dissolva prima che si versi ulteriore “sangue”.

(pubblicato sul n°1 della rivista "La Voce del Padrone"

Ladolescenza


di Leonardo Boanelli

“Crescere, formarsi, nell’insieme, corpo e mente non è solo un periodo cronologico, una fase storica personale, è di più: si è altro. Si è in un’altra forma, come la pupa di un insetto. È un’altra vita non un pezzo di quella da adulto. È un altro luogo, non un altro tempo”. Come un dj, di una trasmissione musicale notturna, parla confidenzialmente al proprio pubblico nello stacco tra un brano e l’altro così Marco Dambrosio, in arte Makkox, nel suo albo alla francese con variazioni fa una compilation costituita da piccole emozioni affini racchiuse in singoli racconti. Il risultato è una qualità emotiva che trascende i singoli brani, ti prende per mano, ti porta nell’adatto mood dolcemente fino a raggiungere il climax ed infine lasciarti andare con un grano di nostalgia in cuore. L’ obiettivo di Makkox: una persistenza sorretta in bilico sull’inespresso. Ma perché nell’era del fumetto digitale, dal formato jpeg, un artista, con un’ampia esperienza sul web, torna alla stampa? Makkox ama la carta, la stampa su carta, non necessariamente solo il fumetto su carta, anzi è critico nei confronti della richiesta degli editori ad adeguarsi a format “fumettistici” rigidi, quelli che imbrigliano l’opera a un pubblico di lettori-di-fumetti-e-basta. Per Makkox conoscere la totalità del processo produttivo tipografico è per un fumettista come per un violinista saper costruire il proprio violino. Ed ama definirsi scarso violinista, ma buon liutaio. Ci tiene a sottolineare la qualità della carta di pura cellulosa della grammatura del suo albo, rilegato a filo, non semplicemente incollato. Gioca nel descrivere al lettore come la copertina, pur essendo della stessa carta dell’interno, è due volte e mezzo più pesante di quest’ultima. Ed in ultimo come un artigiano che si compiace del suo manufatto di cui non è sposo(lettore) né padre(editore) ma amante, descrive come la copertina non essendo tagliata a filo con le pagine ha le bandelle piegate per offrire al pollice “quel dentino lì che dici ora apro e lo leggo, oppure rimani a fare flip flip che ti piace sentire quella listella sporgente sotto il pollice”. Makkox rimpiange dell’adolescenza cose banali che molti hanno cantato: la spensieratezza, le varie verginità, la fiducia di essere immortali, ma anche le paure, i dolori. Al presente tuttavia il fumettista non ha nulla da rimproverare, vede in giro molta voglia di leggere, un desiderio che viene da lettori non da lettori-di fumetti-e-basta. “E poi?”. “Lo devi scrivere al posto di “fine” nei tuoi fumetti.”. “Cosa?”. “E poi?”. Così termina uno dei racconti dell’albo di Makkox ma lo scoprirete da soli, poi.

Fonti: makkox.it
www.comicus.it
www.ninjamarketing.it


(pubblicato originariamente sul n°1 della rivista "La Voce del Padrone")

sabato 14 novembre 2015

Parigi, 13 Novembre. Ci risiamo!


di Simone Mela
Avete presente quando nel bel mezzo della notte state facendo un incubo e vi svegliate di colpo, realizzando alla fine che era solamente un brutto sogno? Ecco. A me sembra che succeda questo in Europa ogniqualvolta ci si imbatta in atti terroristici di matrice islamica. Ci svegliamo per qualche giorno, o settimana al massimo, attivandoci subito (sui social si intende). Diventiamo tutti crociati del terzo millennio con i vari #prayforParis, ci si cambia addirittura l’immagine del profilo Facebook con i colori della bandiera francese, tutte le capitali occidentali più importanti si tingono di blu,bianco e rosso. Le stesse capitali di quei paesi che magari hanno foraggiato tutto questo. Dopo avvenimenti (chiamiamoli così) di questo genere al primo posto va sicuramente il cordoglio per gli innocenti che non c’entravano assolutamente nulla; unito al cordoglio, se vogliamo, possiamo metterci lo sgomento generale per barbarie simili. Ma dopo cordoglio e indignazione la solidarietà non basta, a mio avviso. Bisogna che ognuno nel suo piccolo, prima che ci sia il pericolo di leggere commenti che provocano solo conati, ricerchi le cause di questi massacri.Non è buttando giù moschee o fomentando l’odio alla Oriana Fallaci, come sto leggendo in queste ore, che si potrà risolvere qualcosa. Non possiamo continuare a fare finta di niente, non possiamo più piangere dei morti per scelte politiche sbagliate. Sì, scelte politiche sbagliate. Tanto per fare qualche nome, il presidente francese Hollande chi sta appoggiando in Siria? Chi sta finanziando? Gli unici che stanno cercando di combattere l’Isis sono l’esercito regolare siriano coadiuvato dai soldati russi di Putin e il movimento politico libanese Hezbollah. Contro quest'ultimo proprio due giorni fa lo stato islamico ha provocato 43 morti e 240 feriti, (ne avete sentito parlare in tv? io no). Ritornando alla Francia, a me non sembra proprio che Hollande abbia dato una mano ad Assad e Putin, anzi ha sostenuto i ribelli ,alcuni dei quali tornati in Europa sono diventati a tutti gli effetti delle mine vaganti. Sarkozy nel 2011 cosa è andato a fare in Libia? A esportare democrazia o a destabilizzare un paese ? In Libia ora ci sono due governi in confitto tra loro ed è inevitabile che, spaventati dal clima di guerra, sempre più libici partano alla volta dell’Europa. Lo stesso Gheddafi aveva detto :<<Se ci minacciate, se ci destabilizzerete, ci sarà confusione. Questo è ciò che accadrà. Avrete l’immigrazione, migliaia di persone invaderanno l’Europa dalla Libia>>. Detto fatto. La Francia come altri paesi occidentali, USA in primis, ha finanziato gli stessi terroristi dell’Isis che ora brindano sul sangue versato di ieri sera. Perché non smettere di finanziarli e combatterli? Vi ho messo nell’orecchio queste pulci e se avete veramente a cuore l’Europa e volete prendere a calci i terroristi e il terrorismo, non dico di partire per la Siria per combatterli,( potete continuare a stare dietro un computer, come me del resto) ma almeno cercate di capire chi è il vero nemico e da chi è stato finanziato. Non do nessuna risposta anche perché, data l’estrema complessità geopolitica, credo di non esserne all’altezza; ma il quadro generale penso di averlo capito, penso di aver capito che l’Isis sia un prodotto occidentale usato per rovesciare governi legittimi in medio oriente. Quindi se volete fare qualche riflessione critica ricercando le cause, andando a fondo di tutta questa storia sarò ben felice di aver smosso qualche coscienza e di non essere l'unico complottista, altrimenti, una volta appreso che è stato un incubo, potete rimettervi a letto e dormire. Almeno fino al prossimo attacco terroristico.
Per chi si volesse informare seriamente consiglio il blog di Sebastiano Caputo, Claudio Messora e Giulietto Chiesa.

giovedì 12 novembre 2015

AAA Olio d'oliva italiano cercasi


di Gianluca Boanelli

Ogni abitante della penisola che si rispetti è inevitabilmente portato, in qualsiasi discussione svolta sul Bel paese, a tirare in ballo l’eccellenza della cucina italiana, soprattutto nel contesto attuale in cui oggettivamente sembra emergere con forza come una sorta di “scialuppa di salvataggio” della ormai naufragata economia italiana. Eppure ci troviamo, ahimè, a dover prestare attenzione al nostro piatto che tanto difendiamo in quanto, sempre più spesso, quello che sembra tricolore sostanzialmente potrebbe non esserlo.
La bufera sull’olio d’oliva scatenatasi proprio nel pieno della stagione, periodo in cui la filiera produttiva affronta i maggiori costi, è stata subito inserita tra le tante frodi di commercio nel settore alimentare italiano anche se, non me ne vogliano gli esterofili, l’Italia questa volta c’entra ben poco.
La testata di tutela dei consumatori, che aveva preso in considerazione a maggio 20 bottiglie di olio extravergine declassandone ben 9 a olio vergine per la presenza di difetti organolettici, ha aperto gli occhi del consumatore sull’operato di grandi marchi quali Carapelli, Bertolli, Sasso, Santa Sabina, Primadonna, Coricelli e Antica Badia. Ebbene prendendo in considerazione tali aziende delle tradizione italiana ci troviamo ormai a parlare spesso di marchi nostrani i quali tuttavia sono sottoposti da anni all’egemonia spagnola nel settore. Le due realtà più grandi che sono coinvolte nello scandalo, entrambe storiche aziende toscane, fanno parte, rispettivamente dal 2006 al 2008, del grande gruppo Sos Corporatiòn alimentaria (1,5 miliardi di euro di fatturato), fondo alimentare che controlla quasi il 50% del mercato mondiale di olio tra Spagna, Italia, Portogallo. Nonostante l’Italia rimanga il secondo player nel settore la politica di internazionalizzazione ha fatto sì che oggi nello stivale si importi più che in ogni altro paese al mondo olio d’oliva, olio ovviamente spagnolo ma anche tunisino. Da tale elemento è facile comprendere come al di sotto del Brand italiano di prestigio internazionale si nasconda poi in verità una miscela di oli con cui si cerca di sfruttare l’italianità in ottica di marketing e il basso costo dell’olio base importato, il tutto per aumentare il margine di profitto. Tuttavia la campagna produttiva del 2014, anno tra i peggiori di sempre, ha incentivato tale tipologia di approccio alla produzione, un approccio non additabile storicamente a livello strategico all’Italia, la quale è stata indirettamente coinvolta nel nuovo modo di fare business viste le difficoltà competitive della piccola e media imprese italiana con le grandi controparti internazionali. Le nostra aziende piuttosto si ritrovano a dover tutelare i proprio consumatori come stakeholder esterni e ovviamente la propria reputazione in via diretta. Anche la coldiretti è intervenuta affermando la necessità di intensificare i controlli visto l’aumento di frodi data la scarsità della produzione nell’anno passato, richiamando l’attenzione sui dati dell’import che possono in tale caso essere interpretati come un “campanello d’allarme”. Ancora una volta dunque ci troviamo a dover discutere sulla bontà delle scelte operate in passato a livello nazionale verso un’industria alimentare di massa, quando invece la nicchia di mercato sembra essere il segreto del nostro valore in questo settore (quasi il 50% degli italiano acquista almeno un DOP o un IGP almeno una volta alla settimana nonostante la crisi).
Con fiducia nelle parole del ministro delle politiche agricole Martina, che ha ribadito la rilevanza strategica del settore per l’Italia, la speranza è quella di non doverci accontentare in futuro della quanto mai realistica visione di Gianni Monduzzi sull’evoluzione del settore.
<<Una buona casa olearia passa i primi anni a spremere buone olive per farsi un buon nome. Poi trova più vantaggioso spremere il buon nome>>.
Fonte: www.Ilsole24ore.com

lunedì 2 novembre 2015

Pasolini: l’eretico violentato.


di Vincenzo Cerulli

Avete presente il senso del grottesco? Adesso vi faccio un esempio che sta disturbando non poco la mia coscienza. Proprio in questi giorni (1,2,3 novembre), presso il museo criminologico di Roma sarà possibile osservare tutti gli effetti che Pier Paolo Pasolini aveva con se’ la notte di quarant’anni fa, quando venne ammazzato come un cane. Tra di essi vi sono i suoi documenti, i suoi occhiali, dei libri e persino due assi di legno utilizzate per colpirlo. La versione ufficiale del ministero della giustizia afferma che: “ La scelta di non esporre i reperti in tutti questi anni è stata dettata dalla volontà di rispettare la figura del grande intellettuale e l'importante contributo che Pasolini ha dato alla vita culturale, artistica e politica del Paese”.
Ora io mi domando se si possa stabilire un limite di tempo netto alla discrezione e l’ossequio che vanno riservati ai morti, questione ancora più grave e delicata nel tormentato caso Pasolini. Alla reverenza che andrebbe riservata ad un intellettuale profetico come Pasolini la nostra società preferisce la necrofilia, ed io, purtroppo, ne intuisco facilmente il motivo.
Uno dei tratti più fortemente riconoscibili in Pasolini era il suo “essere eretico”, ogni intervista, ogni film, ogni libro o poesia era a suo modo eretica: in ogni eresia permane però la dimensione del sacro, del religioso, se non altro come momento antitetico da superare. La nostra società invece, per quanto sia più permissiva e laida di quella in cui operava e viveva il Poeta, non è quasi mai luogo di eresie: qualsiasi manifestazione artistica, per quanto possa tendere in quella direzione, non avrà mai l’aurea di eresia in cui era immerso Pasolini ad ogni passo, proprio perché non muove da un substrato di sacralità (o quantomeno di non riconducibile interamente al quotidiano).
Ecco come ammansire Pasolini, come accalappiarne il cadavere la cui eco ancora fa tremare. Si organizza una mostra con quello che in vita indossò e sfogliò quotidianamente (libri e vestiti), assieme alle assi di legno con cui è stato bastonato e il gioco è fatto: la società civile ha versato il suo contributo culturale all’altare del grottesco e Pasolini viene violentato nuovamente sotto il patrocinio delle istituzioni politiche. A commentare la vicenda mi viene alla mente un’immagine terribile: è come se gli italiani, non ancora pronti ad accogliere Pasolini, ma costretti dai quarant’anni passati dalla sua morte a dimostrare il contrario, esponessero le sue viscere nella pubblica piazza senza togliersi i guanti che si usano per i cadaveri che puzzano di più. Triste destino quello riservato al Poeta, che non trova pace nemmeno da morto. Un altro pubblico insulto riservato post mortem al Poeta fu quello di pubblicare le foto (su l’Espresso del Febbraio 1979) del suo corpo massacrato da bastoni e pneumatici senza che nessuna istituzione politica alzò un dito; ciò invece non accadde quando pubblicarono le foto del cadavere di Moro, a seguito di questa fuga di foto fu aperta un’inchiesta e i colpevoli vennero puniti. Queste manifestazioni contemporanee del grottesco ci dovrebbero insegnare una grande lezione: se come popolo non siamo ancora in grado di rendere a Pasolini l’onore e la memoria che merita è meglio lasciarlo morto. Lasciamolo riposare in pace. Perché ci affolliamo sopra la sua tomba tutti insieme? Perché una folla rumorosa e volgare come la nostra si riunisce goffamente per mostrare pubblicamente il proprio sdegno? Perché non andiamo privatamente, uno ad uno ad offrire i nostri fiori e la nostra giovinezza alla tomba del Poeta? Io so perché. Perché nella nostra società l’eresia è scaduta nel becero scandalo da prima pagina e così un pubblico insulto alla Sua figura viene interpretato come un omaggio alla sua memoria.
Caro Pier Paolo, almeno tu che puoi, dimenticaci.

domenica 18 ottobre 2015

Fenomenologia di un’alluvione (o apologia del tombino)


di Vincenzo Cerulli

Nelle comunità di villaggio preindustriali, splendidamente descritte da Massimo Fini, l’individuo autosufficiente non esisteva; di contro, esisteva una grandiosa autarchia di comunità che ricorreva ai soccorsi esterni solo in casi eccezionali. Di certo la comunità era in grado di gestire emergenze riguardanti gli agenti atmosferici in maniera autonoma, per un semplice motivo: la prevenzione era una sana abitudine. Ad esempio se un contadino, un pastore, un fattore o un uomo qualunque notava che il terreno (che ancor oggi dovrebbe essere il primo margine agli allagamenti) non gli dava quelle garanzie a cui era abituato, di concerto con la comunità tutta si operava una bonifica. Qui per bonifica si intende rafforzamento degli argini di un fiume e messa in sicurezza delle pareti montane più predisposte alle frane. Ci si sentiva parte di una comunità, e la comunità comprende anche il territorio che si abita; per questo se il territorio non dava sicurezze ai suoi abitanti questi lo riparavano, curandolo quotidianamente. Oggi evidentemente ci siamo dimenticati che le strade e i paesaggi che scrutiamo ogni giorno ci appartengono. Vediamo il cemento divorare quotidianamente migliaia di chilometri quadrati di terra, da un giorno all’altro scompaiono alberi secolari e noi non abbiamo nemmeno più la forza di chiederci: “perché?”. La verità è che non sapremmo nemmeno a chi fare questa domanda dato che la comunità con cui dovremmo dialogare non esiste. Le persone non sono mai state connesse virtualmente ad un tale livello come oggi; ma allora perché il dialogo reale con il proprio quartiere non esiste? Questo è, a parer mio, uno dei più grandi paradossi dell’età contemporanea: alieni nel proprio quartiere e ospiti intimi nelle “bacheche” altrui. Il centralismo politico-culturale moderno ha eliminato il dialogo all'interno di tutte le migliaia di particolarità autonome comunali, scindendo l’individuo dalla comunità cui appartiene, per proporci poi il dialogo con altri atomi-individui (che abitano dall'altra parte del mondo) scissi dalla propria comunità di appartenenza anch'essi. In questo modo le migliaia di comunità particolari reali sono state sostituite surrettiziamente da un’unica non-comunità virtuale di cui tutti facciamo, più o meno coscientemente, parte. La domanda che oggi dobbiamo porci è questa: “come ricostruiamo la nostra comunità reale?”. Io mi rispondo molto pragmaticamente: dobbiamo tornare a scrutare ogni angolo del paesaggio che viviamo, questo il primo passo. Vi faccio un esempio poco elegante, se quando esco di casa vedo che i tombini della mia via stanno per otturarsi, con il piede ne libero le aperture. Non venitemi a parlare di rivoluzioni di piazza, politici corrotti o dei crimini del neoliberismo se non siete nemmeno in grado di curare il vostro orto e capire dove abitate. Se vogliamo costruire una comunità reale autonoma partiamo dai tombini, strada per strada.

venerdì 16 ottobre 2015

Caso Mondadori-RCS: ultima chance per l'editoria tricolore


di Gianluca Boanelli

La grande concentrazione paventata da anni nell’editoria italiana sembra ormai vicina a una configurazione definitiva. La nascita della goliardicamente definita “Mondazzoli” è ormai sotto l’occhio dell’Antitrust che, come autorità di regolazione, dovrà valutare la concorrenzialità della nascente “big firm” la quale si appresta a coprire quasi il 40% del mercato del libro a livello nazionale. Nonostante le critiche e i dubbi suscitati da numerosi intellettuali, Umberto Eco in testa, l’operazione potrebbe apparire da un lato l’ultima chance per la competitività di un’industria chiave nel contesto italiano. Tralasciando le critiche legate alla questione del pluralismo degli editori, questione poco trattabile in termini di economia applicata, l’operazione può essere compresa solo se collocata nell’ambito tecnologico di un settore ormai colpito su tutti i fronti dal fantomatico ebook e dal nuovo cluster di richieste del moderno “utente” o cliente qualsivoglia dell’editoria. Le difficoltà affrontate dall’industria sono emerse con forza nel corso degli ultimi anni, un ultimo report dal salone di Torino sancisce che nel singolo segmento del “trade” (librerie e librerie online, grande distribuzione esclusa Amazon) si è registrato un -2,6% a fatturato e un -4% a copie vendute nei primi tre mesi del 2015. Di conseguenza l’obiettivo della fusione, ossia la ricerca di quelle economie di ampiezza e di scala che solo i grandi numeri nel contesto moderno possono d’altra parte garantire, è ormai più che comprensibile di fronte alla competitività raggiunta dai “colossi” europei (esempi chiave la francese Hachette e l’anglo-tedesca Penguin random house). D’altro canto l’operazione di per sé non sarebbe nemmeno lontanamente in grado di contrastare, numeri alla mano, il caratteristico “nanismo” del settore il quale vanta una market share tra gli editori cosiddetti “minori” del 38,5% nel mercato italiano, senza dimenticare il ruolo ricoperto dal Gruppo GeMS (Garzanti, Corbaccio, Salani) che attualmente detiene una quota di mercato del 10,2%, quindi a seguire storici editori quali Giunti (6,1%), Feltrinelli (4,6%), De Agostini (2,3%). Tale tipica polverizzazione se da un lato è espressione del grande ruolo giocato nel tempo dall’industria nel contesto italiano, dall’altro è tuttavia sinonimo di inefficienze difficilmente colmabili nel breve termine.
Spostandoci sulla questione che più interessa il consumatore, ovvero il prezzo al dettaglio, non è lecito nemmeno chiamare in causa un possibile incremento dei prezzi a fronte dell’operazione, di fatti il mercato degli ebook, sempre più rilevante in particolare per Mondadori che opera nell’editoria per la scuola, è oggi in grado di tenere il prezzo di vendita basso per qualsiasi editore che voglia comunque continuare a sopravvivere in una condizione di normale remunerazione dei fattori produttivi competendo nel mercato ormai necessariamente “anche” digitale. Forti sarebbero invece le sinergie sfruttabili dalla Mondadori la quale, compensando i problemi finanziari del Gruppo RCS, potrebbe invece giovare della grande esperienza nell’abito della saggistica di Bur e Bompiani. Spetterà comunque a Mondadori di rispondere con misure compensative alle perplessità dell’AGCM nel momento in cui la cessione di Adelphi non sarà bastata a garantire la concorrenza nel mercato.
In attesa della risposta dell’autorità e dell’eventuale via libera all’operazione non rimane che “sorprendersi” (siamo costretti anche a questo) che un’azienda italiana possa essere rilanciata da un’altra impresa italiana, eventualità che, personalmente, non mi dispiace affatto.
Fonte: www.ilsole24ore.com

domenica 11 ottobre 2015

11\09\15 Incontro con Giulietto Chiesa


di Vincenzo Cerulli

Premessa utile: in questo articolo non intendo assolutamente indossare le vesti del profeta di vertità, per quel che posso cercherò infatti di riportare a voi alcune semplici informazioni provate da fonti ufficiali. L'11\09\01 è un argomento troppo vasto per essere esaurito in un semplice articolo, noi tutti però abbiamo il dovere di dubitare di quello che ci è stato raccontato a riguardo. Spero che il mio contributo possa accendere o rafforzare il dubbio in voi lettori.
Venerdì 11settembre 2015 una parte della redazione di VDP ha partecipato all'anteprima nazionale del film "Operation terror", organizzata da PandoraTV, nella sala Isma del Senato. Il film tenta di ricostruire l'operazione criminale, i cui architetti ci sono ancora ignoti, che, l'11\09\01 , ha portato alla morte di quasi tremila persone. La proiezione è stata preceduta da un'introduzione ai fatti da parte di Giulietto Chiesa, il quale ha presentato le più evidenti contraddizioni e “coincidenze” della versione ufficiale, concentrandosi principalmente sulle 7 esercitazioni militari in corso la mattina dell'11 Settembre 2001. In un altro articolo di Giulietto Chiesa per il Fatto Quotidiano (07\09\14) il giornalista ci fa notare che delle 8 scatole nere che avremmo dovuto ritrovare ne sono state analizzate solo 4 e non tutte erano in perfette condizioni.Eppure la commissione d'inchiesta ufficiale non fa minimamente cenno a questa mancanza. Non si può credere ad un così grande concorso di accidenti, chi cerca fra le trame dell'informazione mainstream occidentale sa bene che deve strappare tutti i fili quando si accorge che questi sono fragili. Al termine del film, che comunque riesce a ricostruire chiaramente la vicenda dando una visone propria personale, Giulietto ha presieduto un dibattitto sull'attuale situazione geopolitica mondiale dando particolare attenzione alla crisi siriana. Gli aiuti umanitari che la Russia sta inviando alla popolazione siriana e il maggiore apporto di mezzi ed armi all'esercito regolare siriano fanno ben sperare Assad, che strenuamente resiste assieme al suo popolo da più di tre anni ai tentacoli atlantisti (ribelli siriani armati dall'occidente da un lato e DAESH dall'altro). Il filo rosso che collega la strage del 2001 alle attuali crisi mediorientali è molto più evidente e pericoloso di quanto si creda. Con quell'atto, de facto, inizia il “nuovo secolo americano”. Colpiti al cuore delle proprie certezze, gli americani, non poterono fare altro che credere alla versione ufficiale (pur piena di lacune e punti in cui la razionalità viene meno) pensando che è meglio credere ad una bugia mediocre e traballante che ad una verità terribile. Ci vuole troppo coraggio per guardare in quell'abisso che hanno voluto sotterrare sotto il bombardamento mediatico quotidiano che recita: “Io sono la Verità, non avrai altra Verità all'infuori di me”. Così, avallarono anno dopo anno tutte le missioni imperialistiche dei finanziatori di Bush, in Afghanistan e in Iraq provocando oltre 1 MILIONE di morti, reclamate come guerre giuste, paventando lo spettro di al-Qa'ida sotto il vessillo di Giustizia. Ci deve essere per forza stato un cortocircuito nella mente di milioni di americani quando la commissione senatoriale sull'intelligence USA ha reso pubblico (in data 09\12\14) un estratto del suo rapporto classificato sul programma segreto di tortura da parte della CIA, e sapete perché? Perché da questo rapporto emerge la totale estraneità di al-Qa'ida agli attentati dell'11 settembre: “A seguito della pubblicazione degli estratti del rapporto, sembra che tutte le prove citate nella relazione della Commissione presidenziale d’inchiesta sugli attacchi dell’11 settembre e che collegano i suddetti attacchi ad al-Qa’ida, siano false. Ad oggi non esiste più un solo indizio per attribuire gli attacchi dell’11 settembre ad al-Qa’ida: non esiste alcuna prova che le 19 persone accusate di essere i pirati dell’aria si trovassero quel giorno su uno dei quattro aerei e che le testimonianze degli ex appartenenti ad al-Qa’ida, che rivendicavano gli attacchi, siano autentiche.” (THIERRY MEYSSAN) Questo terribile casus belli autoinflitto è il motore primario della guerra al terrorismo su cui gli USA hanno costruito il proprio imperium al di fuori dei propri territori nazionali. C'è una frase che ancora oggi fa discutere molto quando si tratta l'argomento e si trova in un rapporto di 90 pagine pubblicato dal PNAC (Project for the New American Century). Il PNAC aveva fra i suoi membri svariati deputati del partito repubblicano e diversi uomini delle passate amministrazioni Bush fra cui Dick Cheney (vice di Bush l'11 settembre), più o meno l'avanguardia dell'intellighènzia neocon americana. Comunque, nel 2000 viene pubblicato il rapporto di cui sopra, intitolato “Ricostruire le difese dell'America: strategie, forze e risorse per un nuovo secolo” e ancora “nella convinzione che l'America dovrebbe cercare di preservare ed estendere la sua posizione di leadership globale mantenendo la superiorità delle forze armate USA” (in pratica una “Pax Americana”) e la frase incriminata recita così: “Inoltre, il processo di trasformazione, anche se porterà un cambiamento rivoluzionario, risulterà molto lungo, se non si dovesse verificare un evento catastrofico e catalizzante, come una nuova Pearl Harbor”. Questa frase è stata anche riportata dallo storico Franco Cardini nello studio di Matrix il 02\06\06 ma c'è anche chi la interpreta in un altro modo, accusando chi la accosta al progetto di predominio americano di averla decontestualizzata e dunque svuotata di contenuto. In un articolo di Paolo Attivissimo infatti viene fatto notare che la frase, nel suo naturale contesto, si riferisse ad una trasformazione tecnologica e non politica. A parer mio questa diversa e possibile interpretazione non toglie al progetto PNAC alcuna mira imperialista, anche perché, de facto, i foraggiatori del progetto non nascondono i propri obiettivi; ma anzi li affermano nei loro principi esposti sul sito (ormai fuori uso). Ecco i propositi fondamentali: - "la leadership americana è un bene sia per l'America che per il resto del mondo", "questa leadership richiede forza militare, energia diplomatica e affidamento a principi morali" “un significativo incremento della spesa militare degli USA”, “Preservare ed estendere un assetto internazionale favorevole alla sicurezza, alla prosperità e ai principi degli USA”.- Sappiamo tutti cosa è successo nemmeno due anni dopo a New York, quasi 3000 morti, e il piano di americanizzazione del mondo prende una velocità ed una forza tali che nessuno avrebbe immaginato fino a pochi anni prima. La catalizzazione è riuscita, non importa a nessuno di mettere da parte la ragione per credere alla versione ufficiale, ecco, questa è la lezione più importante che possiamo trarre dall'attentato alle twin towers: oggi la Ragione è la prima vittima ad essere sacrificata sull'altare del calcolo politico, i boia sono i mass media, più forti di qualsiasi prova. Io non so qual è la verità sull'11 settembre; ma sono sicuro che chi sa veramente cosa è successo quel giorno non ci abbia raccontato la verità.

sabato 10 ottobre 2015

Oggi (o quattro anni fa se preferisci)


di Leonardo Boanelli

Magari, non tutti ne conosceranno il nome, ma, senz’altro, non sarà sconosciuto ai lettori il motivo per il quale è passato alla storia, che, da egli stesso, è stata, in qualche misura, ordinata; sto parlando di Dionigi il Piccolo, monaco nativo della Scizia, che introdusse l’era “cristiana” o “volgare” nel computo degli anni. A causa di un curioso errore del monaco, tuttavia, la nascita del Redentore fu posticipata, Questi, infatti, non nacque nel 25 dicembre del 753, come sostenuto dallo sciita, ma più probabilmente nel 749. Dunque, ad esser pignoli, oggi non saremmo nel 2015, ma nel 2019. Seguendo questo ragionamento il pensiero va istintualmente al 2011, ovvero, nel nostro “gioco” al 2015. Quattro anni fa assistemmo all’intervento militare in Libia cosiddetto “a sostegno dei ribelli libici del Consiglio nazionale di transizione”. Motivo dell’intervento: il mancato rispetto della risoluzione 1973 del Consiglio di Sicurezza, stando alle fonti ufficiali. L’Italia partecipò all’intervento con 16 velivoli cacciabombardieri tornado ECR dell’Aeronautica Militare, 8 caccia intercettori F-16, fu, inoltre, messa a disposizione della NATO la portaerei leggera Giuseppe Garibaldi (nonché concessione di basi strategiche, supporto logistico). Come suggerisce Alberto Negri dalle pagine del Sole 24ore l’Italia “che pure vantava il migliore (ruolo) diplomatico sul campo” ben poco ha ottenuto di quanto si era preposto. La qual cosa non ha, comunque, reso meno gravose per lo Stivale le spese per la missione; costi per 700 milioni di euro, derivanti in parte dai tre mesi di operazioni, ma, soprattutto, comprensivi delle spese sostenute per attività di accoglienza, gestione e rimpatrio dei profughi. Leggo da indiscrezioni trapelate da qualche tempo dal Corriere della Sera che, per ipotesi, quattro tornado italiani bombarderanno postazioni Isis in Iraq. Ipotesi che, seppur blandamente, il ministero della difesa si è trovata a dover smentire. Sebbene Gian Micalessin da Il Giornale suggerisca che si tratti di “un intervento già deciso da un ministero della difesa che indica già la strada del voto parlamentare per cambiare le regole d’ingaggio dei 4 tornado impegnati nelle missioni di ricognizione sui territori dell’Isis”. “Le guerre, non da oggi, sono soprattutto propaganda mediatica” scrive Negri ed i recenti avvenimenti sembrano proprio dargli ragione. L’Italia preferisce, infatti, vedere come una minaccia Mosul, che semmai infastidisce gli interessi geopolitici USA, distante da Roma 2708 chilometri, rispetto alle basi libiche Isis di Derna e Sirte ben più vicine alle nostre coste(400km). Scrive Negri “Allora (intervento in Libia) come oggi forse speriamo di ricavarne qualche vantaggio diplomatico o economico o mettere una pezza come in Libia (…) Chi ha visto sul campo quasi tutte le missioni belliche italiane all’estero (…) può affermare che questi vantaggi, accompagnati da vite umane perdute e spese di bilancio notevoli, non si concretizzano mai”. Matteo Renzi sostiene che bisogna evitare un Libia bis, si spera che a ripetersi, piuttosto, non sia l’Italia. Concludo, terminando anche il nostro “gioco”, con la speranza che l’errore di Dionigi sia di sostanza e non di forma. E che il 2015 differisca dal 2011 per delle scelte, non solo per dei numeri.

giovedì 1 ottobre 2015

Per un nuovo manifesto di Ventotene


di Simone Mela

''Il problema che in primo luogo va risolto, e fallendo il quale qualsiasi altro progresso non è che apparenza, è la definitiva abolizione della divisione dell'Europa in stati nazionali sovrani''. E' un passo tratto dal Manifesto di Ventotene. Fu redatto sull'isola laziale di Ventotene nell'estate del 1941 nel bel mezzo della seconda guerra mondiale. A redigerlo furono due confinati politici antifascisti: Altiero Spinelli, ex comunista, e Ernesto Rossi, liberale, tuttora considerati i padri fondatori dell'Europa. Essi sognarono la creazione di un grande stato federale europeo mediante una rivoluzione di tipo liberal-socialista che doveva proporsi ''l'emancipazione delle classi lavoratrici e la creazione per esse di condizioni più umane di vita'', dove non ci fosse, al contrario di oggi, l'egemonia dell'economico sul politico in quanto le forze economiche devono essere sottomesse dagli uomini, ''controllate nel modo più razionale, affinché le grandi masse non ne siano vittime". Anelavano a un' Europa fondata sulla solidarietà, laddove solidarietà significasse agire con aiuti concreti e diretti che permettessero di preservare la dignità di un qualsiasi paese che si trovasse in difficoltà e non una qualche forma caritativa o un compromesso economico che non fanno altro che acuire il male di cui un dato popolo soffre: vedesi quello che è successo in Grecia con la svendita di 14 aeroporti alla compagnia tedesca Fraport, unico modo per accedere al terzo pacchetto di "aiuti". Ovviamente nella cooperazione sovranazionale immaginata da Spinelli ogni singolo stato avrebbe mantenuto la propria autonomia politica onde garantire la possibilità di adattarsi alle proprie peculiarità culturali e economiche. L'Europa era stata lacerata dalla prima guerra mondiale e stava per essere martoriata nuovamente; hegelianamente parlando Spinelli ha pensato la storia del suo tempo, aveva capito quali fossero i limiti e gli ostacoli per quel tipo di Europa e quali soluzioni somministrarle per metterla in salvo. A questi intellettuali non restava altro che auspicare un periodo di pace per l'intero continente a partire dall'abolizione della divisione in stati nazionali, dalla creazione di un unico esercito garante della libertà e della sovranità dei vari stati e ultimo, ma assolutamente non per importanza, dalla convivenza pacifica con la Germania. Una visione dell'Europa del tutto legittima a quei tempi che tuttavia non ha avuto piena realizzazione nei circa cinquant'anni successivi. Un esempio? Il trattato di Maastricht. Siglato il 7 febbraio 1992 da dodici paesi europei la CEE (comunità economica europea) diventa UE (unione europea) ;oltre alla moneta unica con la conseguente creazione di una banca centrale (BCE) ha introdotto tutta una serie di misure volte allo svuotamento totale della democrazia dei singoli stati. Abbiamo consegnato la nostra sovranità a enti sovranazionali eletti da nessuno (vedi la commissione europea o la BCE). Basti leggere l'articolo 107 in cui è scritto espressamente che i governi degli stati membri non possono interferire con le decisioni prese dalla BCE rinunciando di fatto alla propria politica economica e passando sotto il giogo del ricatto di Bruxelles. Un vero disastro in tutti campi: produzione, consumo e occupazione. Jean Pierre Chevènement ,socialista, nel 1992 si schierò contro la ratifica di Maastricht stigmatizzando il trattato in questo modo: <<Maastricht è il risultato di una concezione tecnocratica dell' Europa. E' l' Europa fatta attraverso la moneta, secondo le condizioni volute dalla Bundesbank tedesca>>. Non proprio la cooperazione pensata da Spinelli e Rossi.
Quello che occorre oggi è un altro Manifesto di Ventotene in cui si proclami, questa volta, l'uscita dall'Eurozona dei vari stati membri in modo tale che ciascuna nazione si riappropri della sovranità politica, economica ed anche territoriale. Ogni stato ha diritto alle proprie frontiere, alla propria politica, a, giustamente direi, propri interessi economici e soprattutto deve rispondere al popolo e al popolo solamente e non a banchieri di Bruxelles. Prerogative che possono entrare a pieno titolo sotto il lemma di Libertà. L'Europa va ripensata come fecero Spinelli e Rossi nel '41, i quali di certo non avevano le medesime idee politiche, ma su una cosa erano assolutamente d'accordo: la salvezza del continente. L'Europa deve tornare a essere quel mosaico di culture, tradizioni e civiltà che è stato troppo a lungo coperto dal grigiore della finanza e delle banche. Solo così potremo godere nuovamente di quella beethoveniana gioia: bella scintilla divina, figlia degli Elisei.


(Pubblicato originariamente sul numero 0 della rivista "La Voce del Padrone")

Uccidersi per un ideale


di Simone Mela

Immagino che tutti voi sappiate chi sia Catone l'Uticense. Uomo politico romano, si schierò dalla parte di Pompeo durante la guerra civile. Fiero sostenitore dei valori repubblicani e convintissimo anticesariano si uccise nel 46 a.C. ad Utica, città africana a nord di Cartagine, dove gli ultimi resti dell'esercito pompeiano tentavano l'estrema resistenza contro Cesare. Catone, quindi, con il suo gesto esasperato ha dichiarato a tutto il mondo romano di non sottostare al dominio di Cesare, perfetta antitesi di tutti gli ideali repubblicani. L'Uticense si è fatto testimone di un totale raggiungimento di libertà tanto che Dante nel primo canto del Purgatorio scriverà "libertà va cercando, ch'è sì cara,/come sa chi per lei vita rifiuta./Tu 'l sai, ché non ti fu per lei amara/in Utica la morte, ove lasciasti/la vesta ch'al gran dì sarà sì chiara." Catone, insomma, ha anteposto la libertà alla vita stessa assurgendo a esempio immortale che la Storia può vantare di ricordare. Ma se ora vi chiedessi di trovarmi un Catone dei nostri tempi, un uomo che per i suoi ideali, giusti o sbagliati che siano, è arrivato, come l'Uticense, all'atto estremo del suicidio? A me è venuto in mente lo storico e saggista francese Dominque Venner. «Serviranno certamente gesti nuovi, spettacolari e simbolici per scuotere i sonnolenti, le coscienze anestetizzate e risvegliare la memoria delle nostre origini». Così scrisse il 21 maggio 2013 sul suo blog poche ore prima di entrare nella cattedrale di Notre-Dame, raggiungere l'altare maggiore e spararsi un colpo di pistola in bocca. La sua indignazione era dovuta alla legge per il matrimonio fra persone dello stesso sesso, legge che era stata approvata da poco dal presidente Hollande, e il crescente peso demografico degli immigrati musulmani. Venner sentiva che stavano venendo meno due pilastri dell'identità storica e culturale francese, quell'identità tanto preziosa a Dominique. Il suo suicidio ha rappresentato l'impotenza di fronte a un processo storico e il fatto che abbia scelto come luogo in cui togliersi la vita proprio Notre-Dame la dice lunga su tutto ciò. «È qui e ora che si gioca il nostro destino fino all’ultimo secondo», ha lasciato scritto. «E questo ultimo secondo ha tanta importanza quanto tutto il resto della vita. È per questo che occorre essere se stessi fino all’ultimo istante». In quest'epoca vile Dominque Venner ci ha reso in qualche modo dei privilegiati perchè ci ha donato la possibilità di contemplare qualcosa di raro: un fulgido esempio. In un'era in cui si protesta con un tweet o con un commento su facebook, un uomo ha deciso che l'unica protesta possibile per la sua Francia e per i suoi Francesi fosse il suicidio. Non voglio, ora, sollevare una questione sul motivo e quindi sugli ideali che hanno spinto lo storico a un atto così eversivo. Gli ideali possono essere condivisibili o non, ma difenderli e difenderli fino alla morte, fino a sentirsi soffocati in una società che non sentiamo più nostra: questo dovrebbe essere l'imperativo morale. Gesti simili, se magari all'epoca della seconda guerra civile romana se ne potevano vedere, forse, in maggiori quantità, oggi sono più unici che rari. Gesti simili nel bene o nel male lasciano un'impronta indelebile e vanno a scrivere quella che comunemente noi tutti chiamiamo Storia. Il repubblicano Catone e il nazionalista Venner sono stati oltre che due suicidi politici due disperati e fieri paladini delle proprie idee.
(Pubblicato originariamente sul numero 0 della rivista "La Voce del Padrone")

Il Quadrato: Cammello


di Mauro Cuomo

Camminavo pensando, come mio solito, al passato, presente e futuro; il mio passato, presente e futuro, certo, ma anche quello del mio vicino che ascoltava non so quanto coscientemente. Il passato, presente e futuro di tutti insomma. 
Il sassolino nella scarpa fu L’uomo (senza escludere il me stesso), il vivere secondo Queste leggi, Questi costumi, Questi consumi. E dato che prova soddisfazione ai più trovare un appoggio stimato, andai a trovare Federico e abbandonai per un momento il mio compagno in delirio. Subito trovò la risposta (tipo astuto Federico): inizio a parlare di Cammelli, Leoni e Fanciullini. Continuava, nonostante la mia irresolutezza nel disquisire, a dire che in questo presente ci sono troppi Cammelli e che io, nel venire da lui, fui Leone... “Abbiamo perso qualcosa di atavico!”, urlava. Approfittai di un momento di lucidità per domandare, quindi azzardai: “e chi sono mai questi Fanciullini?”. Rise, iniziò a saltare e a fare piroette. Mi guardava con quei suoi occhi mentre faceva danzare quel baffo a spazzola che teneva così caro.
 (Pubblicato originariamente sul numero 0 della rivista "La Voce del Padrone)

La Repubblica indipendente e sovrana del West Eastern Divan


di Mauro Cuomo

“Vecchio testamento, nuovo e corano sono fonti di saggezza infinita se analizzate con una prospettiva indipendente e antidogmatica”.
La saggezza dell’arte combatte ogni sorta di pregiudizio ed estremismo. Daniel Barenboim ed Edward Said incarnano il modello di tale virtù: il primo è un pianista e direttore d’orchestra israelo argentino, ex bacchetta della Chicago Symphony, dell’Orchestre de Paris ed attuale direttore dell’opera di Stato di Berlino e della Scala di Milano; il suo collega d’arte è uno scrittore e docente universitario palestinese autore di saggi sull’Orientalismo e non solo.
Nel 1999, a Weiman, i due decisero di fondare un’orchestra sinfonica particolare, la West Eastern Divan Orchestra. Con l’intento di riunire giovani musicisti israeliani, palestinesi, siriani, medio orientali in generale ed europei, l’obiettivo è quello di trasmettere un messaggio di pace attraverso la musica e la filosofia orchestrale (Il pensiero di Barenboim ricostruibile dai suoi scritti “La musica sveglia il tempo” e “La Musica è un tutto. Tra etica ed estetica” giustifica l’alto ambire di tale progetto). L’orchestra, in musica, è un organico mosso da singoli individui che hanno un’esigenza comune. Come tali, i membri di un’orchestra ricoprono diversi ruoli e tutti soggiaciono a delle responsabilità: l’accettazione del sistema gerarchico della musica stessa è un esempio, tant’è che il pianista ci dice proprio che “l’accettazione della liberà e dell’individualità dell’altro è una delle lezioni più importanti che la musica ci impartisce”, cosa da considerare in un contesto atipico come quello della West Eastern Divan. Quindi dal momento che indifferenza e musica non possono coesistere, tanto meno in un progetto simile, prerogativa prima diventa l’ascolto reciproco e la conoscenza dell’altro.
I due intellettuali ci offrono un modello di stato laico, armonico-pitagorico e produttivo: alla base vi è onestà, moralità e un mosaico culturale cosciente . Cosciente del proprio ruolo, dei propri diritti e delle proprie responsabilità. L’uno dell’altro. Barenboim richiama all’ordine l’equilibrio fra intelletto, emozione e carattere per esportarlo fuori la sua orchestra. Offre una visione antidogmatica e indipendente delle sacre scritture come opportunità per cogliere il loro vero insegnamento.
La West Eastern Orchestra ha vissuto il conflitto israelo-pelestinese in prima persona: nel 2005 (ad un anno dalla guerra del Libano) si sono esibiti a Ramallah, in Palestina, superarono ostacoli burocratici ed esponendosi ad un rischio reale, palpabile.
Oggi più che mai l’orchestra si fa baluardo di una morale alla deriva e di valori oramai troppo lontani. L’azione di queste menti dona speranza.
“Equal in Music”

(Pubblicato originariamente sul numero 0 della rivista "La Voce del Padrone")

Il pitbull tedesco è in realtà uno shih tzu


di Valerio D'Agostini

Europa, 2015. Agli occhi di tutto il continente Europeo il leader politico ed economico indiscusso, la cosiddetta "locomotiva d'Europa", è la Germania.
C'è da dire però che, almeno sul piano macroeconomico, questo Paese non sia proprio un buon esempio da proporre al resto del mondo come guida europea, intanto perché il suo tasso di crescita del Pil è stato sempre sul medio-basso, circa 1,6% lo scorso anno e 1,62% per il tasso annuale del 2015, dati positivi ma non certo degni di un Paese leader (il Regno Unito ha fatto un +2,6% lo scorso anno e un +2,7% per il tasso annuale di quest'anno mentre l'Italia un +0.5% nello stesso periodo), poi perché, nonostante abbia un tasso di disoccupazione al 4,9%, moltissimi dei contratti lavorativi sono part-time, a stipendi da miseria stagnanti da 10 anni e senza le tutele sociali che invece avevano le generazioni precedenti, ed è per questo che la proporzione tedesca di lavoratori sottopagati a fronte del reddito medio nazionale è la più alta d'Europa.
Ma lasciamo stare per un momento i dati (e i trucchi a livello di quadratura del bilancio, vedi KFW) e analizziamo, invece, l'economia reale, cioè quella davvero vissuta dal cittadino medio. Si è detto che la Germania ha la proporzione più alta in Europa di lavoratori sottopagati su reddito medio nazionale e questo lo si può infatti riscontrare nella vita di tutti i giorni, e chi è andato in Germania potrà sicuramente confermare: il tedesco medio spende quasi tutto ciò che guadagna, ed è per questo che i risparmi delle famiglie sono tra i più bassi di tutta Europa, e non è un caso se di turisti tedeschi se ne vedano sempre meno in giro per i Paesi Europei, al contrario di quelli italiani, spagnoli o francesi che, almeno secondo i mezzi di informazione convenzionali, dovrebbero essere quelli più colpiti dalla crisi economica. La differenza sta nella ricchezza reale di questi Paesi, cioè mentre questi ultimi hanno un Governo povero ma cittadini sostanzialmente ricchi, la Germania ha un Governo molto ricco e cittadini sostanzialmente "poveri".
È il caso, quindi, di smetterla di avere la Germania come modello economico da seguire, perché la sua immagine che propone al mondo, e in special modo all'Europa, è quella di un pitbull, ma in realtà si tratta di uno shih tzu, un "cane-leone", ma piccolo di taglia.

Fonti: tradingeconomics
(Articolo pubblicato originariamente sul numero 0 della rivista "La Voce del Padrone")

Oeconomia instrumentum regni


di Vincenzo Cerulli

“[…] il PIL misura tutto, tranne quello che rende la vita degna di essere vissuta” - Robert Kennedy 18 Marzo 1968
Dato l’argomento estratto dalla citazione e il contesto storico cui appartiene ci appare subito un quadro ben definito. Gli U.S.A., potenza vincitrice della II guerra mondiale e locomotiva economica di tutto il mondo occidentale, si trovavano a quel tempo (1968) ad un bivio molto più esistenziale che socio-politico od economico. La questione era più o meno questa: continuare a correre follemente verso la mostruosa crescita economica (con l’illusoria pretesa di crescere sempre di più), con tutto quello che ne consegue (ciò che stiamo vivendo oggi in assenza di uno Stato garante per i cittadini) o fermarsi a riflettere sulla propria coscienza nazionale ed individuale. Forse i ragazzi che, quantomeno, provarono a ribellarsi a quel sistema (che poi si rifletteva in tutta Europa) si chiedevano se fosse giusto bombardare il resto del mondo per avere il proprio orticello curato e le vetrine dei propri negozi sempre pulite.
Paolo Barnard mi ha insegnato che il PIL è: “tutto quello che il paese produce più quello che importa meno quello che esporta”. In questa operazione è però assente l’uomo, l’individuo membro di una collettività formata da pari. Come può l’uomo beneficiare dell’operazione di cui sopra se non vi è ridistribuzione di quei beni prodotti? Può certamente capitare che vi sia un paese con il più elevato PIL del mondo, ma se questa ricchezza viene spartita egoisticamente fra un centinaio di famiglie e il resto del paese è affamato, questo paese non è degno di essere chiamato Stato. La sua influenza si limiterà ad un contesto geografico e topografico, la sua vita Nazionale sarà circoscritta alle valutazione che le agenzie di rating daranno alle sue banche. Ecco, questa è “l’italia” oggi, una provincetta senza alcuna pretesa storica, il cui unico imperativo categorico è il pareggio di bilancio, far quadrare i conti, fare i compiti a casa, e farseli correggere dai “professori” di Bruxelles, Strasburgo e Francoforte. Siamo completamente immersi nel “cretinismo economico” gramsciano; per citare Ezra Pound, invece, dovremmo pensare che dopo i Re, dovrebbero essere i banchieri a perdere la testa.
C’è stato però un uomo, nel ‘900, che ha provato a rivoltare dall’interno il sistema capitalistico mondiale e, nei suoi scritti, c’è riuscito: il suono nome è John Maynard Keynes. Per il mio modestissimo parere il suo sforzo è paragonabile a quello del “più grande fra tutti i Greci”: Epicuro. Quest’ultimo infatti riuscì ad abbattere gli idoli statici dell’Olimpo, la superstizione religiosa, la cieca venerazione politeista del suo tempo. Keynes fece questo con l’economia. Nel sistema capitalistico mondiale non c’è spazio né per l’uomo né tantomeno per lo stato che lo dovrebbe difendere: per questo gli economisti vengono carezzati con mani di rosa e venerati come feticci.. Se penso agli economisti di oggi infatti mi vengono in mente gli antichi sacerdoti della Roma monarchica o la Pizia di Delfi: dalla loro bocca viene deciso quanto uno Stato possa spendere per la nostra sanità, per la nostra istruzione, per coltivare la nostra terra, quando è necessario fare la guerra e contro chi, se appoggiare un tale popolo in un conflitto armato piuttosto che un altro. I loro discorsi, oggi, sono caratterizzati da un’aurea profetico-sacrale inaccessibile ai più: chiunque provi a smascherare razionalmente le sfingi che ci presentano come assiomi viene accusato di complottismo. Così, come a Roma si paralizzava la vita pubblica per un presagio nefasto, così in Italia si passa da un Presidente del Consiglio all’altro, senza chiedere nulla a noi popolino, perché così vuole la Troika, perché così dice lo Spread, perché così vogliono i monitor di Wall Street. Secondo Keynes agli economisti andava dato il posto che gli spetta. “Guardiamoci dal sopravvalutare l’importanza del problema economico o di sacrificare alle sue attuali necessità altre questioni di maggiore e più duratura importanza. Dovrebbe essere un problema da specialisti, come la cura dei denti. Se gli economisti riuscissero a farsi considerare gente umile, di competenza specifica, sul piano dei dentisti, sarebbe meraviglioso” (J.M. Keynes "La fine del laissez-faire ed altri scritti"). Dunque, oggi, vanno posti accanto agli avvocati e agli insegnanti, come una categoria specializzata. Non devono assolutamente più essere la categoria dominante e caratterizzante della società; invece oggi è così; i politici invece sono solo maschere, sono il braccio armato degli economisti. L’occidente non ha più una guida spirituale, un’alternativa metafisica alla quotidianità proprio perché ci basta la quotidianità. L’unica via semplice per uscirne è l’etere televisivo, che oggi è il più grande mezzo di riproduzione dei dogmi economici. Non guardiamo il cielo perché ci spaventa, ci rifugiamo nelle placide preghiere della BCE riguardo le riforme del nostro paese. Per questo, oggi, possiamo affermare che la religione (qui intesa come rifugio dal cieco calcolo figlio del positvismo scientifico ed anfora del sacro) ha ceduto il posto all’economia, il trascendente all’immanente, le prospettive nazionali al reddito mensile, l’Esistenza alla sopravvivenza. Il nostro sguardo non è più coraggioso, non osa guardare oltre l’orizzonte.

(Pubblicato originariamente sul numero 0 della rivista "La voce del Padrone")