mercoledì 30 marzo 2016

Risorto - Risen, la recensione


di Beatrice Ambrosi

L’ultimo film di Kevin Reynolds, Risorto, uscirà nelle sale italiane il 17 marzo, non a caso a pochi giorni dalla Pasqua, celebrazione della risurrezione di Gesù. Il film, che narra appunto la resurrezione di Cristo contemplata nel Nuovo Testamento, appare come sequel non ufficiale de La passione di Cristo (2004) di Mel Gibson o perlomeno questo è l’intento del suo sceneggiatore Paul Aiello; effettivamente a primo acchito, anche solo guardando il trailer, viene subito da pensare al film di Gibson, ma le aspettative vengono deluse immediatamente. Il film è ben lontano dal capolavoro vincitore di tre premi oscar nel 2005 per la miglior fotografia, il miglior trucco e la migliore colonna sonora: non vi è quella risonanza, quella credibilità che arricchisce lo spettatore, non solo a livello di contenuti (Risorto, così come La passione di Cristo, non dice molto di quanto non è stato già detto e ridetto), ma a livello di forma e di immagine. La vicenda è sviluppata a mo’ di flashback, cominciando con l’immagine del protagonista Clavio (Joseph Fiennies), tribuno militare a servizio del prefetto Ponzio Pilato (Peter Firth), che seduto a tavola nella baracca di un tale, ricorda il percorso che lo ha portato in Galilea. Questo flashback appare quasi diviso in due parti: la prima più realistica, la seconda dai tratti misticheggianti. La divisione coinvolge anche lo sfondo in cui si svolge la vicenda, prima a Gerusalemme e poi in Galilea, nonchè il contenuto. Nella prima parte i due legionari Clavio e Lucio (intepretato dal giovane Tom Felton, ai più noto per il ruolo di Draco Malfoy nella saga di Harry Potter) vengono incaricati di trovare il corpo del Nazareno Yeshua (Cliff Curtis), scomparso dopo tre giorni dalla sua morte, nonostante la sua tomba fosse stata sigillata con corde molto resistenti, su consiglio del Sinedrio: Yeshua rappresenta infatti una minaccia per Roma e per il potere e potrebbe diventare un’arma di ribellione per i più deboli. Per cui nella prima parte, seguendo la suddetta divisione, viene mostrata questa grande caccia all’uomo da parte di un Clavio molto razionale, che vediamo rappresentato come abile soldato nella sequenza iniziale in cui i romani si scontrano con i giudei, a colpi di spade, scudi e sassi (questi usati dai secondi) . La condizione di Clavio si può riassumere nella locuzione latina “Si vis pacem, para bellum”: egli non viene presentato come il Miles gloriosus plautino, ma come un tribuno determinato e concentrato nel suo obiettivo di acquistare potere a Roma per potersi costruire una famiglia ed una villa in cui vivere in pace, in una quotidianità che sia priva di morte; non ricerca lo sfarzo ma il benessere. E’ proprio la determinazione di Clavio nella caccia, nello scovare cadaveri e nell’interrogare i testimoni della risurrezione di Yeshua che rende poco convincente la sua conversione; sebbene infatti il regista utilizzi l’espediente degli incubi in cui appare la faccia smunta dell’uomo crocifisso per creare confusione nella testa del tribuno, la sua conversione appare forse troppo rapida. Eppure a Clavio, non credente, il cui unico Dio è Marte, bastano le parole di una Maria Maddalena (Marìa Botto) a far sorgere dei dubbi alla sua ferrea convinzione: “Stai cercando qualcosa che non troverai mai. […] Apri il tuo cuore e guarda!” La prima parte del film è connotata da elementi storici come la datazione degli eventi (collocabili al 33 d.C.), i riferimenti all’imperatore Tiberio allora in carica, a Cesarea, cittadina in cui risiedeva ufficialmente Pilato, al Sinedrio e alla figura di Caifa; appare anche la Sacra Sindone che viene giustificata da Clavio dall’uso di erbe ed oli. La ricerca dell’uomo è accompagnata dalla musica di Roque Baños, degna di un film poliziesco, in grado di creare tensione e di dare maggior ritmo alla narrazione. La scena che unifica le due parti in cui è suddiviso il film è quella in cui i legionari invadono le case dei giudei per trovare i discepoli che Clavio scova nella dimora di Maria Maddalena assieme a Yeshua: qui l’abilità di Reynolds emerge da un’inquadratura sui sandali del tribuno che, incredulo, indietreggia; successivamente, si rivedono questi sandali andare avanti verso gli apostoli. Clavio ha veramente il Maestro davanti a sè e non riesce a conciliare il fatto di averlo visto morto e poi di nuovo vivo: a questo punto la sua sorpresa è enfatizzata dal clichè dei clichè, ovvero la spada che in slow motion gli cade dalle mani. E’ a questo punto che si apre la seconda parte della storia: Clavio lascia un messaggio agli altri legionari con su scritto che vuole avere risposte e per ciò seguirà gli apostoli in Galilea. Il soggetto della storia cambia, la caccia non è più rivolta al corpo di Yeshua (ormai in putrefazione), ma a Clavio, in carne ed ossa. Si apre un capitolo del film che appare troppo fantasioso, misticheggiante e poco elaborato: il modo in cui compare e scompare Yeshua agli apostoli appare artificioso, quasi fosse un fantasma che scherzosamente va e viene, quasi come avesse il mantello dell’invisibilità e scomparisse a suo piacimento. Convince, comunque, che per il ruolo del Messia sia stato scelto un uomo di origine maori come Cliff Curtis, che ha le fattezze di un semita e che rispetta quella iconografia che vuole Gesù con barba e capelli lunghi e con il naso aquilino. La caccia a Clavio continua ma viene subito interrotta quando viene scovato dall’ex compagno Lucio, al quale, puntandogli la spada alla gola, dirà “Oggi non muore nessuno!” inaugurando perciò un nuovo capitolo della sua vita, privo di guerra e di sangue. Ecco che quindi viene da pensare che fin dall’inizio il film si occupi solo marginalmente di Cristo e che forse il titolo “Risorto” sia riferibile anche a Clavio: egli è risorto, è rinato, dopo anni di battaglie, di fatica e di servizio; ha trovato qualcosa in cui credere veramente, che non costituisce alcuna minaccia perchè “Se Yeshua fosse qui ti abbraccerebbe” afferma l’apostolo Bartolomeo mentre è interrogato da Clavio. Il principio “si vis pacem, para bellum” non ha più importanza oramai ed è sostituito da un monito differente: se vuoi la pace, apri il tuo cuore.

(Pubblicato originariamente su http://www.rearwindows.it/ )


lunedì 28 marzo 2016

Siria, armi chimiche e il doppio standard dell'Occidente


Sono passati cinque anni dallo scoppio della guerra civile in Siria e lo scenario che ci è stato presentato in questo lasso di tempo è sempre stato alimentato dalla smania di un Occidente ansioso di accelerare il processo del cambio di regime al fine di liberare il popolo siriano dal dispotismo dell'"orrendo dittatore" Bashar al-Assad. Chi altro poteva autoproclamarsi eroico capo di questa nobile impresa verso l'abbattimento del male, proponendosi di esportare libertà e democrazia nel resto del mondo, se non proprio gli Stati Uniti d'America? Dunque, la ormai classica trama di questo "nuovo" film hollywoodiano era scritta, i media dovevano solamente interpretarla con una performance convincente ed una buona retorica.

di Horatiu Chituc


La retorica di cui stiamo parlando è quella del "bene contro il male", cioè, la stessa usata in modo clamoroso nel 2003 con l'inizio della guerra in Iraq che, un po' per gli interessi economici nella regione, un po' per un'incompetenza allarmante dal punto di vista amministrativo, fu chiaramente smascherata e scarnificata dallo strato molto spesso di falsità e bugie quando si ebbe di fronte la realtà dei disastri sociali e della totale anarchia provocati dall'intervento militaristico statunitense che voleva assolutamente un regime change.
Ma non c'è bisogno di esempi che vadano oltre gli eventi accaduti in Siria per dimostrare come le intenzioni dell'Occidente non derivino da una pura e ingenua volontà di promuovere nobili valori come la libertà e la democrazia lì dove invece regna il male e l'oscurità. E questo lo sappiamo con precisione perché già nel lontano 2006 l'organizzazione non-profit Wikileaks, fondata da Julian Assange, è riuscita a mettere mano sulle comunicazioni private tra l'ambasciatore americano a Damasco William V. Roebuck e la Casa Bianca in cui vengono discussi i punti deboli di Assad su cui poter progettare un piano machiavellico per destabilizzare e generare paranoia nel governo siriano. E tutto ciò avvenne cinque anni prima dell'ondata di rivoluzioni che caratterizzarono la Primavera Araba, momento in cui il governo siriano oppose una resistenza ferrea dando luogo alla sanguinosa guerra civile che continua ancora oggi.
Ci sono quindi buoni motivi per sospettare che le prime proteste in Siria siano state il risultato di un'orchestrazione subdola portata avanti da esterni che avevano come interesse la caduta del governo di Assad come afferma anche la parlamentare siriana di religione cristiana Maria Saadeh che oltre a denunciare il fatto che i "rivoluzionari" lasciavano i loro posti di lavoro perché erano pagati di più (non si sa bene da chi) per partecipare alle proteste contro il regime, osa anche criticare la terminologia dei media occidentali che identificano la Siria con una dittatura.
Ora, per essere precisi, Bashar al-Assad è un capo di stato che, dopo trent'anni di governo del padre Hafiz al-Assad, ha ereditato la sua carica in modo anticostituzionale, dato che era troppo giovane per diventare presidente secondo la legge siriana, e con delle elezioni (si fa per dire) in cui lui era l'unico candidato dell'unico partito Ba'th riuscendo così a prendere il potere in uno stato dove l'opposizione era messa fuorilegge. Già facendo queste considerazioni ci si rende conto che è un po' difficile definire Bashar al-Assad un capo di stato democratico che rispetta la legge del proprio stato e, anzi, secondo gli standard occidentali è pure giustificata la definizione di dittatore tenendo anche conto del suo lungo incarico durato quasi sedici anni. Ma quello di cui parla Maria Saadeh è da considerare più che altro come una percezione che hanno i siriani i quali, secondo le sue parole, non ritengono che il proprio paese sia un regime dittatoriale.
Gli occidentali hanno invece percezioni diverse e spesso distorte dal giornalismo propagandistico dei media. Infatti, durante questi cinque anni in cui centinaia di migliaia di persone hanno perso la vita, c'è un evento particolarmente controverso e spesso esposto con superficialità mediatica che ha rappresentato un punto cruciale nell'evoluzione della guerra siriana: si tratta ovviamente del presunto uso di armi chimiche da parte del governo siriano sui propri cittadini.
Gli attacchi chimici che accaddero nel 2013 furono molteplici: il primo avvenne il 19 marzo a Kahn al-Asal nella città di Aleppo in cui morirono 10 civili e 16 militari al servizio del governo; il secondo ebbe luogo presumibilmente tra il 12 e il 14 aprile a Jobar, Damasco, ma si trattò più che altro di un accusa infondata da parte di alcuni giornalisti e dell'intelligence francesi che non ebbe nessun riscontro nelle investigazioni dell'ONU; e, infine, il più famoso e distruttivo attacco fu quello di Guta a Damasco del 21 agosto in cui morirono tra le 281 e le 1.729 persone.
Le reazioni a quest'ultima devastante tragedia si polarizzarono subito in due fazioni: da una parte gli Stati Uniti e i loro alleati additavano frettolosamente il governo siriano come responsabile indiscutibile dell'accaduto il quale andava punito a suon di bombardamenti per aver oltrepassato la "linea rossa" tracciata da Obama; dall'altra Assad respingeva le accuse supportato dalla Russia di Putin che invitava alla calma e suggeriva di aspettare i risultati di un'investigazione sul campo prima di giungere a delle conclusioni.
Perciò il Segretario Generale dell'ONU Ban Ki-moon fornì una squadra che guidasse l'investigazione sul luogo dell'accaduto e, sebbene il resoconto dell'operazione risultasse quasi del tutto neutrale, una magistrata svizzera di nome Carla Del Ponte che faceva parte del team investigativo dichiarò più volte che le prove rinvenute tendevano a colpevolizzare di più i ribelli dell'opposizione che il governo siriano. Le sue dichiarazioni però furono largamente e ingiustamente ignorate dai media occidentali che non sembravano aver alcun problema con il fatto che nella primavera del 2013 erano stati arrestati dalle autorità turche alcuni membri di al-Nusra (ribelli siriani affiliati ad al-Qaeda) per il possesso del medesimo gas nervino sarin che venne usato negli attacchi chimici. E un altro fatto su cui si discute poco è che nell'attacco di Khan al-Asal vennero impiegati razzi fabbricati in casa e non quelli standard usati dall'esercito siriano.


Ma c'era da aspettarselo che piccoli incidenti di questo genere venissero ignorati da un Occidente che addirittura sponsorizza questa opposizione composta da gruppi terroristici che, con molta probabilità, sono responsabili di orribili crimini di guerra.
Ma possono bastare solo queste considerazioni per provare l'innocenza di Assad? Certo che no. Però, tutto ciò che abbiamo detto fino adesso mette in evidenza un altro fatto ancora più sconcertante e cioè: l'esistenza di un doppio standard nella politica estera dei paesi occidentali che, con le sue azioni, sembra dirci: se lo fa Assad, dobbiamo distruggerlo; se lo fanno i ribelli, beh...allora possiamo pure chiudere un occhio. I crimini e le vite umane perse non vengono giudicate più con lo stesso criterio e non hanno più un valore oggettivo, perché ciò che conta ormai è da chi sono compiuti tali atti e non il loro valore intrinseco: quindi, i crimini sono crimini che vanno puniti solo se è il mio avversario geopolitico ad averli commessi e le vite umane perdute le considero tali solo se queste dimostrano la brutalità del mio oppositore.
Fin qui l'implicazione del governo siriano nei diversi attacchi chimici non è ancora chiara, sebbene ci siano alcune prove in sua difesa fornite dal giornale tedesco Bild am Sonntag in un articolo dell'8 settembre del 2013. Qui vengono esposte le dichiarazioni di alcune spie dell'intelligence tedesca che riportano le intercettazioni radiofoniche in cui i comandanti dell'esercito siriano chiedevano l'autorizzazione per l'uso di armi chimiche in battaglia, richiesta ripetuta per 4 mesi e mezzo alla quale il governo di Assad non ha mai dato il permesso. Questo proverebbe che Assad non è direttamente responsabile, sebbene sia possibile che l'esercito abbia agito di testa sua.
Ma a contraddire queste prove c'è un'altra intercettazione di un ufficiale di Hezbollah e l'ambasciata iraniana a Damasco in cui viene detto che l'attacco del 21 agosto a Guta è stato ordinato dal governo.
Dunque, notiamo quanto sia infinitamente complessa la questione e che non si possa semplicemente risolvere con una o due prove o addirittura adoperando esclusivamente la logica chiedendosi: beh, che vantaggi avrebbe avuto Assad nel fare appello al suo arsenale chimico quando tale azione non avrebbe fatto altro che metterlo ancora di più a rischio?. Sebbene tale domanda vada posta, ci sono mille altre variabili e dinamiche che sfuggono alla nostra indagine. Perciò, non si può giungere ad un verdetto conclusivo.
Ciò che invece si può ritenere di aver dimostrato con certezza è che dietro le scelte apparentemente nobili e umanitarie delle grandi potenze mondiali, spesso si cela un impulso cieco ed oscuro che calpesta e sotterra la verità stessa al fine di raggiungere la soddisfazione di un potere in atto; le prove oggettive qui vengono declassate, la ragione repressa e il medesimo sistema di valori che si applica in una situazione non sembra avere rilevanza in un'altra. Cos'è questo se non un malato desiderio egemonico sotto mentite spoglie?

(Pubblicato originariamente su http://noideanoname.blogspot.it/ )

venerdì 25 marzo 2016

Intervista al regista Thomas Torelli


"Thomas Torelli è il regista di " Un altro mondo", film che sta facendo il giro del pianeta. Il suo prossimo film, "Food Revolution", in uscita quest'anno, solleverà un doveroso dibattito sull'alimentazione. Lo abbiamo intervistato e ci ha anche rilasciato  qualche anticipazione sul suo ultimo lavoro."

di Vincenzo Cerulli

-V Cosa diresti ai lettori di “La Voce del Padrone” che ancora non hanno visto il tuo film? Nelle tue proiezioni premetti sempre quanto sia difficile descrivere di cosa parla il film; eppure dopo averlo visto quasi tutti dicono sempre: “ma è chiaro, è tutto così semplice”. Questa apparente incongruenza ti fa sorridere?

-T Le domande sono collegate. Risponderei che proprio perché ho difficoltà a parlare del film non posso far altro che invitare tutti a vederlo al più presto (sorride). Gli argomenti che emergono un po’ alla volta dalla trama del film non sono nuovi concetti o teorie che voglio inserire nelle teste degli spettatori ma semplicemente antiche verità che appartengono a tutti noi e che il film si limita a farci riscoprire, ci aiuta a ricordare cose che abbiamo sempre saputo ma abbiamo dimenticato.

-V Credi che la diffidenza che molti potrebbero avere ad avvicinarsi ad un’opera come la tua sia rivelatrice del fatto che la maggior parte dei “valori” che abbiamo ereditato in realtà non ci appartengano? Nell’accettare un “altro mondo” molti potrebbero pensare di dovere rifiutare tout court il “mondo” che abitiamo adesso. Come possiamo trovare armonia fra i due ed evitare di ricadere in una dialettica binaria degli opposti che troppo spesso si è limitata a mostrare solo l’altra faccia della stessa realtà?

-T Esatto, noi non dobbiamo assolutamente creare dal nulla un “altro mondo” opposto e speculare a quello attuale, altrimenti ricadiamo in uno sterile dualismo. Un “altro mondo” è quello che già abbiamo, dobbiamo però iniziare a guardarlo con occhi diversi, dobbiamo iniziare ad abitare questo “altro mondo” tutti i giorni, cercando di essere persone più responsabili. Ovviamente non possiamo illuderci di creare una società diversa tornando a suonare i tamburi per le vie delle metropoli, alcune cose le abbiamo irrimediabilmente perse e i tentavi di imitazione sarebbero scimmiottamenti dannosi; ma questo non significa che sia tutto irrecuperabile. Dobbiamo riuscire a trarre vantaggio dalla pluralità di società, cosa che non è assolutamente accaduta 500 anni fa con gli invasori dell’America centrale.

-V In questo tuo riferimento alle popolazioni precolombiane (che hanno un ruolo fondamentale nel film) si è praticamente palesato l’aut-aut occidentale: o noi dominiamo voi o viceversa, gli europei non hanno provato minimamente ad integrarsi con loro. Perché non c’è stata un’osmosi fra le due culture secondo te?

-T Era impossibile perché i nostri “valori” erano radicalmente diversi dai loro. Per esempio per loro era inconcepibile cedere pezzi di terra agli europei perché loro non l’avevano mai comprata, non la riconoscevano come una loro proprietà stabilita da un contratto scritto (non avevano scrittura, per questo ogni parola detta a voce era sacra). Loro non trattavano la terra come se l’avessero ricevuta dai genitori; ma come se la stessero tenendo in prestito dai loro figli. Gli europei volevano comprare terre che per gli indigeni non erano vendibili, proprio perché non gli appartenevano, lo scontro di civiltà era inevitabile. Pensa a come sarebbe il mondo se noi tutti oggi vedessimo la terra non come ereditata dai genitori ma come in prestito dai nostri figli? Qui emerge un grande problema della nostra società: sentiamo come nostro (e dunque curiamo) solo ciò che è di nostra proprietà. I mari, le montagne, le foreste che appartengono a tutti, non sono di nessuno e ognuno ci fa quello che vuole. Difendiamo solo ciò che porta il nostro nome, comunità e condivisione non esistono più.

-V Il tuo discorso mi fa pensare all’etica di Lévinas, secondo il quale ogni uomo che viene ad essere nel mondo non abita un luogo suo di diritto. Quel luogo è stato di qualcun altro prima di lui e così sarà sempre. Continuando a non pensare l’etica in questi termini reiteriamo il discorso di chi dice: “è mio ciò che è di mia proprietà quindi lascio a nessuno quello che non è definibile, lascio ciò che è comune all'incuria generale.”

-T Vincenzo il mare di chi è? Basta guardare il porto di qualsiasi grande città per capire che non è di nessuno, lo stiamo distruggendo e se distruggiamo il mare distruggiamo il pianeta. Sembra banale ma di fatto è così.

-V No no Thomas purtroppo non è banale affatto, è un motivo su cui è doveroso ragionare ma purtroppo finché ne chiacchiereremo e basta non ne discuteremo mai seriamente.

-T L’America noi l’abbiamo scoperta dal nostro punto di vista. Dal punto di vista dei nativi non abbiamo scoperto nulla, basta cambiare punto di vista e la realtà cambia radicalmente.

-V Questa pretesa di universalizzare che si risolve nell’europeizzare è un vizio che l’Europa ha sempre avuto purtroppo. L’ultima domanda che vorrei farti riguarda il docu-film a cui stai lavorando in questo periodo: “Food Revolution”. Sono convinto che solleverà un dibattito di cui c’è veramente bisogno, ti posso chiedere qualche anticipazione?

-T Si, ti posso dire che stiamo intervistando le persone più in vista riguardo questa tematica. In unico film stiamo cercando di convogliare i tre caratteri principali del problema della cattiva alimentazione: la salute dell’uomo, l’impatto sull’ambiente e la reazione del mondo animale. Parlare dell’argomento tenendo separati questi fattori è molto peggio che non parlarne affatto, sono intrinsecamente collegati l’un l’altro. Chi tenta di dividerli lo fa per dividere l’opinione pubblica, "divide et impera", non è una novità. Abbiamo trasformato l’alimentazione in business e passatempo, le conseguenze di questa trasformazione le può trarre chiunque se è sincero con se stesso. Se paghi un hamburger un dollaro non puoi credere che quell’hamburger sia un prodotto sano, sai benissimo che stai avvelenando te e tutto l’ambiente che ha contribuito, passivamente, affinché l’hamburger arrivasse sulla tua tavola.


-V Grazie per le tue risposte Thomas, in lak'ech! (vedete il film per capire cosa significa)

Trailer dei due film:
https://www.youtube.com/watch?v=UAsa8wbzJ78
https://www.youtube.com/watch?v=zcYFb_Bn44U

giovedì 24 marzo 2016

To Kill a Fictionbird, della morte narrativa


di Edoardo Rivetti

''Vi erano cose vive e cose non vive[...]. Le cose non vive rimanevano ferme nello stesso punto, le cose vive si muovevano.'' Jack London

Giocare con il destino di un uomo è un compito gravoso, poco importa che questo sia il prodotto dell'estro creativo di un artista. Uccidere Anna deve aver richiesto a Tolstoj una certa dose di apatia momentanea, la stessa che cerca Raskolnikov nell'appartamento di Ivanovna. Sicuramente poi il peso della penna-pugnale triplica quando il personaggio diventa alterego dell'autore. Ma, in definitiva, davvero si uccide un personaggio che mai ha avuto realtà corporea, trafiggendolo con un etereo pugnale in una cronaca dell'irreale? Quando davvero muoiono i personaggi?
 Tutte le forme narrative, altro non sono, Hitchcock insegna, che una finestra aperta che ci consente un' unica prospettiva verso un delimitato spazio. I figuranti che vediamo non possono entrare in contatto con noi, non possiamo che conoscerli indirettamente sempre attraverso esperienze che sono forzati a ripetere. Guardiamo l'ultimo fotogramma, leggiamo l'ultima pagina, sentiamo l'ultima battuta, e tutto è finito, i personaggi, infine, sono ''venuti a mancare'' nel senso più passivo della locuzione. Ma non a tutti è comune questo destino, alcuni personaggi rimangono lì, e vivono ancora, quella vita che non l'autore, ma lo spettatore ha donato loro.
Quando lo spettatore identifica un personaggio con un ruolo da compiere nella trama, cambiando, quindi, il proprio status da ''colui che guarda'' a ''colui che interpreta'', contestualizza appieno nel mondo irreale proposto dall'autore ciò che vede. Far completare ogni tipo di missione che è stata identificata con un personaggio, vuol dire uccidere narrativamente il personaggio stesso, compiendo il fatidico omicidio molto più oneroso nella finzione di una coltellata ben assestata, pur descritta nei minimi particolari.
 Ann Darrow. King Kong. La Bestia che ama la Bella, la storia la conosciamo tutti. Quando l'acromegalica scimmia cade dall' Empire State Building, la storia finisce, la Bella non può più essere amata dalla Bestia e Ann Darrow muore narrativamente sul colpo quando sulla pellicola appaiono le due fatali parole THE END. Funzione finita, Ann Darrow a casa, e di come trascorrerà la mezz'età sapendo di essere stata amata dal primate più grande del mondo, in fondo, non interessa a nessuno, perchè il suo ruolo è esaurito.
Antoine Doinel. I 400 colpi. Lui, ragazzo abbandonato a ciò che la sua età gli impone di fare, con una difficile storia familiare alle spalle. Quando la madre lo lascia solo a confrontarsi con la vita adulta che sta davanti a lui, la storia continua, il ragazzo fugge e sa di doversi, ancora di più, preparare a ciò che il futuro gli riserva. Arriva la fatale parola FIN. Funzione non finita, bobine che oramai girano a vuoto, ma Antoine ancora vive nella nostra mente di fruitori attivi. Dipingiamo in noi, magari anche solo con sporadiche pennellate un po' impressioniste, ciò che il futuro ha in serbo per il ragazzo; perchè il suo ruolo non è esaurito.
 Nell'arte, nulla è imposto, e l'autore non ha una visione preferenziale sulla storia che racconta. Il semplice sparire dalla ragnatela della trama, può identificare la finta-morte-corporea di qualcuno che non è mai davvero esistito, ma non implica la fine di una vita che è ontologicamente diversa dalla nostra. Il destino di tutti i personaggi è nelle nostre menti, dall'inizio alla fine o alla non fine.
 ''Chi cerca il cuore della storia nell’interstizio fra la creazione e il suo autore si sbaglia: conviene invece cercare non nel campo fra lo scritto e lo scrittore, bensì in quello che sta fra lo scritto e il lettore.'' Amos Oz

mercoledì 23 marzo 2016

TISA, TTIP, TPP: l'interesse delle lobby e il corporatismo economico


Questi tre acronimi compongono un triangolo di accordi economici su scala mondiale al cui centro si trovano gli Stati Uniti. La grande potenza americana, avendo visto minacciato il suo imponente status economico mondiale davanti alla esponenziale crescita delle economie degli stati emergenti come la Cina e gli altri membri BRICS (Brasile, Russia, India, Sud Africa e la già menzionata Cina), si trovò costretta a cercare nuove soluzioni per andare contro il proprio declino. Perciò, dopo vari tentativi fallimentari nella World Trade Organization (WTO), si bypassò questo organo e si pensò agli accordi di scambio TISA, TTIP e TPP, sui quali si sta ancora trattando e che dovrebbero creare un'alleanza economica tra USA, UE e gran parte del mondo, escludendo da ogni trattativa i BRICS così da creare un blocco economico conchiuso in se stesso.


di Horatiu Chituc

19 giugno del 2014: Wikileaks pubblica la bozza sull'accordo TISA che risale al 14 aprile del 2014. E' la prima volta che il grande pubblico ha accesso a tali informazioni, sebbene le trattative fossero iniziate già dal 2013, e non a caso il documento pubblicato è solo una bozza incompleta. Julian Assange, fondatore di Wikileaks, tenuto in asilo politico nell'ambasciata ecuadoriana di Londra, offre una ricompensa di 100.000 euro a chiunque sia in grado di reperire i documenti completi degli accordi e mandarli sulla piattaforma della sua organizzazione. Fino ad oggi quelle carte non sono ancora state pubblicate per intero e non possono essere viste direttamente da chi non è autorizzato, benché i partecipanti alle trattative non siano tenuti a conservare il segreto. Inoltre, il procedimento con cui si può accedere a questi documenti è complicato ed è riservato solo ai soci e ai membri dei vari organi politici dell'UE. Tale segretezza ha fatto sorgere critiche e proteste da parte di organizzazioni ecologiste, sindacati e organizzazioni per la difesa del consumatore la cui esclusione dagli incontri più importanti ha rafforzato i sospetti di diversi potenziali pericoli.
Poniamoci dunque la domanda più semplice ma allo stesso tempo anche la più fondamentale: cosa sono TISA, TTIP e TPP? TISA è un acronimo per Trade in Services Agreement e riguarda la liberalizzazione degli scambi dei servizi sul piano internazionale. Ciò vuol dire che, attraverso questi accordi, si tenta di agevolare le condizioni in cui gli investitori stranieri operano negli stati ospiti attraverso l'eliminazione delle "barriere discriminatorie", aumentando così i loro diritti sul territorio dei paesi ospiti.Gli stati che ne prendono parte sono i seguenti: Stati Uniti,Canada, Australia, Nuova Zelanda, tutti i paesi dell'UE, Svizzera, Islanda, Norvegia, Liechtenstein, Turchia, Israele, Taiwan, Hong Kong, Corea del Sud, Giappone, Pakistan, Panama, Cile, Paraguay, Perù, Colombia, Messico e Costa Rica. Non a caso la maggior parte di questi stati basa la propria economia sul terziario, cioè sui servizi a cui il trattato punta, e rappresentano il 70% degli scambi mondiali dei servizi. Ciò che preoccupa e che dovrebbe preoccupare tutto il demos dell'Europa e del resto del mondo che ne prende parte è che il TISA è spinto principalmente dalle lobby che rappresentano prima di tutto gli interessi delle corporazioni multinazionali e poi quegli dei cittadini.
La pressione lobbysta vuole che si crei un melting pot economico in ogni stato partecipante in cui le imprese locali saranno svantaggiate di fronte alla scomparsa delle "barriere discriminatorie" nei confronti delle multinazionali con cui dovranno competere a pari diritti. Il TISA quindi richiede che le corporazioni straniere vengano poste sullo stesso piano di quelle nazionali. L'eliminazione di tali barriere prevede una maggiore liberalizzazione dei servizi come le banche, la finanza (in particolare i dati finanziari), il trasporto, la sanità, la consulenza e così via. Benché l'UE abbia dichiarato pubblicamente le sue posizioni su alcune delle controversie nate dalle trattative negando così un orientamento verso la privatizzazione di alcuni servizi pubblici e del governo (a cui inizialmente sembrava ambire) come l'educazione, la regolazione e distribuzione dell'acqua, la sanità, la giustizia, la polizia e la difesa, questo non esclude né che un governo possa adottare liberamente tali misure né tantomeno quelle che sono le maggiori critiche rivolte al TISA, e cioè: il modo antidemocratico e semisegreto in cui le trattative sono avvenute e avvengono ancora; il fatto che, anche se l'accordo deve essere approvato in ultima istanza dal parlamento europeo (unico organo UE eletto democraticamente), il suo contenuto verrà pubblicato solo 5 anni dopo l'entrata in vigore; la deregolamentazione finanziaria che, come afferma la professoressa di diritto neozelandese Jane Kesley, sembra sia spinta sullo stesso modello che ha generato la crisi del 2008 (e anche dagli stessi individui responsabili) riprendendo le proposte del precedente GATS (General Agreement on Trade in Services) discusso alla WTO e mai reso vincolante; una volta approvato il TISA, nessun governo degli stati firmatari potrà introdurre nuove restrizioni in caso di necessità; e infine, il trasferimento di dati finanziari dei clienti da uno stato all'altro e il problema delle potenziali violazioni della privacy che possono sorgere in questo ambito. Tuttavia, l'UE ha dichiarato il proprio intento di proteggere la privacy dei suoi cittadini, sebbene nei limiti che gli accordi lo consentano.
Queste sono solo alcune delle conseguenze problematiche del TISA che al contrario dei suoi fratelli TTIP e TPP non prevede una versione rivisitata del controverso ISDS (Investor-state dispute settlement), cioè, un diritto che consente alle corporazioni straniere di fare causa ai governi degli stati ospiti (e non viceversa) rivolgendosi ad una corte arbitrale privata e semisegreta, chiamata ICSID, che bypassa le leggi degli stati sovrani e procede secondo le regole internazionali. I tre membri che compongono il tribunale ICSID non sono giudici indipendenti, ma avvocati con stretti legami al mondo finanziario delle corporazioni che tendono a privilegiare gli investitori. Numerose volte le multinazionali hanno fatto ricorso all'ISDS come nel caso dell'azienda energetica svedese Vattenfall che nel 2011 fece causa alla Germania per il ritiro precauzionale delle licenze di alcuni impianti nucleari in suo possesso a poco tempo dopo la tragedia di Fukushima, per non parlare poi dell'azienda francese Veolia che portò il governo egiziano a corte per via dell'innalzamento del salario minimo oppure ancora dei molti casi delle aziende di tabacco come la Philip Morris nelle sue dispute con l'Uruguay, la Norvegia e l'Australia. Questo dimostra quanto una legislatura internazionale a favore del corporatismo e della logica del profitto possa contrastare lo sviluppo e l'interesse sociale: infatti, se lo stato perde il processo, la somma da risarcire si ottiene con le tasse di ciascuno dei suoi cittadini. Il TTIP, Transatlantic Trade and Investment Partnership e il TPP, Trans-Pacific Partnership prevedono tutto ciò sebbene, per risolvere le controversie, l'UE abbia tentato di creare un nuovo organo chiamato ICS (Investment Court System) che secondo l'organizzazione europea del controllo delle lobby, il Corporate Europe Observatory (CEO), è solo un altro acronimo per il vecchio ISDS poiché le conseguenze sono le stesse.


Il TTIP è l'accordo che ci riguarda più da vicino dato che i suoi membri sono l'UE e gli Stati Uniti d'America, mentre il TPP che è stato da poco firmato, benché non sia ancora definitivo, coinvolge USA, Canada, Australia, Giappone, Perù, Brunei, Malesia, Cile, Nuova Zelanda, Perù, Vietnam e Singapore. Essi, come il TISA del resto, sono negoziati in un modo semisegreto e antidemocratico e spingono per una maggiore liberalizzazione degli scambi sul piano internazionale con l'eliminazione dei dazi doganali e l'acquisizione di più diritti da parte degli investitori stranieri. Tutto ciò porta anche ad una criticataomogeneizzazione delle normative che regolano gli standard dei vari mercati e della produzione. Infatti, nel TTIP per esempio, collidono due filosofie di mercato molto diverse: da una parte abbiamo un'Unione Europea che si sforza di garantire la sicurezza del prodotto prima che entri in commercio, dall'altra, gli Stati Uniti che prima immettono il prodotto sul mercato e solo dopo che il suo consumo ha generato effetti negativi si prendono provvedimenti. Il sistema made in USA è chiaramente orientato più verso il profitto che in una direzione che rispecchi la salvaguardia dei consumatori e si teme proprio che tale modello, una volta entrato in vigore il TTIP, venga applicato anche in Europa abbassando così gli standard di sicurezza. Tale preoccupazione si estende ai settori ambientali, lavorativi e alimentari e si potrebbe materializzare: 1) nell'uso di una poco dispendiosa tecnica di estrazione del petrolio e del gas naturale chiamata fracking che, oltre all'enorme consumo idrico e all'uso aditivi chimici dannosi per l'ambiente, può causare l'aumento dei gas serra nell'atmosfera attraverso la fuoriuscita del metano; 2)nell'attacco ai diritti dei lavoratori come è avvenuto nel caso "Veolia vs Egitto", sebbene gli stati negozianti asseriscano che tali accordi, TISA incluso, siano orientati verso la creazione di nuovi e più numerosi posti di lavoro; 3) nell'abbassamento della qualità dei prodotti alimentari con l'introduzione sul mercato di alimenti più economici e meno sicuri come i cibi spazzatura e con il passaggio da una produzione basata sul naturale agli OGM su cui i membri UE hanno avuto un atteggiamento restrittivo fino adesso. E' difficile trarre conclusioni definitive su quale sarà l'esito di questi accordi, sia per il modo in cui si svolgono le trattative sia per il fatto che si sta ancora trattando e le posizioni dei vari partecipanti non sono state ancora chiaramente delineate. Certo è il fatto che è necessaria una maggiore sensibilizzazione su questo argomento spesso trascurato dai media e che fortunatamente è stato ripreso recentemente dal nuovo movimento democratico europeo DiEM 25 lanciato dall'ex-ministro della finanza greco Yanis Varoufakis e dal giovane filosofo croato Srecko Horvat a cui hanno preso parte fra gli altri pure il musicista e produttore Brian Eno, il filosofo sloveno Slavoj Zizek e colui che per primo ha fatto notare l'esistenza di questi accordi, Julian Assange. Tale movimento sottolinea l'importanza di un'Europa democratica contrapposta all'attuale modello di governo tecnico in cui l'unico organo democraticamente eletto è un Parlamento Europeo che ha solo una funzione di analizzare e di controllare le proposte generate dalla Commissione che non è eletta dai cittadini europei. E' la Commissione stessa che porta avanti le trattative del TISA e del TTIP e perciò l'accusa di un procedimento antidemocratico, oltre ad essere ritenuto tale per la segretezza con cui avviene, riceve ulteriore giustifica da questo.
Per concludere, non c'è niente di male nel siglare accordi economici che favoriscano lo sviluppo e la cooperazione internazionale, ma bisogna essere sempre vigili e informati sulla vera natura di questi accordi, capire nell'interesse di chi avvengono e se i metodi applicati rispecchiano i valori su cui vogliamo basare la nostra società: è forse il profitto smisurato di pochi più importante della garanzia dei diritti di molti?
(Articolo pubblicato originariamente su http://noideanoname.blogspot.it/ )

Servi o sovrani: tertium non datur


di Simone Mela

Come molti di voi sapranno, dopo la seconda deliberazione alla Camera in conformità all’articolo 138 della Costituzione, nell’autunno di quest’anno la riforma costituzionale sarà sottoposta a referendum confermativo. C’è da fare una premessa doverosa: coloro che stanno tentando di riformare la Costituzione si trovano in parlamento grazie a una legge elettorale (il porcellum) dichiarata illegittima dalla Corte Costituzionale con la sentenza n.1/2014 a causa dell’assenza delle preferenze e di un premio di maggioranza senza una soglia minima di voti. Il nucleo della riforma prevede il passaggio da un bicameralismo paritario a un bicameralismo imperfetto. Il Senato non scomparirà, ci sarà e come. Invece che da 315 il nuovo Senato (il cosiddetto Senato delle Autonomie) sarà composto da 100 senatori, 95 dei quali saranno rappresentanti delle istituzioni territoriali (74 consiglieri regionali e 21 sindaci) e 5 senatori nominati dal presidente della Repubblica con un mandato di sette anni. Non saranno, quindi, più eletti dal popolo ma dai consigli regionali. Ad esercitare il potere legislativo, votare e revocare la fiducia al governo sarà esclusivamente la Camera dei deputati. L’organo senatoriale avrà voce in capitolo in materia costituzionale e, udite udite, potrà partecipare, insieme alla Camera dei deputati, all’elezione del presidente della Repubblica. Potrà nominare due dei cinque giudici della Corte costituzionale, mentre gli altri tre sono di competenza della Camera. Tra le altre cose la revisione costituzionale alza anche il numero di sottoscrizioni necessarie per le proposte di legge di iniziativa popolare: dalle cinquantamila firme si passa a centocinquantamila segnando un netto peggioramento per il popolo affinché eserciti iniziativa di legge. Tornando all’elezione del Presidente della Repubblica, questo verrà eletto dalla settima votazione in poi con la maggioranza qualificata dei 3/5 dei votanti. Il tutto se unito con la legge elettorale dell’Italicum fa sì che quei 3/5 siano in sostanza la maggioranza assoluta parlamentare. L’italicum, infatti, è una legge elettorale a forte vocazione maggioritaria in quanto prevede che la lista, e non la coalizione, avente il 40% dei consensi possa aggiudicarsi un premio di maggioranza pari al 55 % dei seggi (340 su 630). Se nessuna lista riuscisse a varcare la soglia del 40% si andrà al ballottaggio fra le due liste più votate. A seguito del ballottaggio la lista che ottiene più voti, indipendentemente dal risultato in termini percentuali si aggiudica il premio, ossia 340 seggi. Capite bene che la maggioranza parlamentare sarà non una maggioranza di coalizione ma di lista alla quale sarà legata la figura del Presidente del Consiglio sancendo di fatto, in contrasto con i principi della Costituzione, la netta supremazia dell’esecutivo sul Parlamento. Ora bisogna riflettere un attimo sul contesto storico in cui queste riforme mettono piede. L’Italia non è più uno Stato sovrano, si potrebbe disquisire a lungo sul perché ma fatto sta che è così. A mio modo di vedere tutto questo pasticcio c’entra ben poco con i tagli ai costi della politica e con la velocizzazione dell’iter legislativo. Queste riforme fanno parte di un più ampio progetto di smantellamento della democrazia e quindi anche della nostra sovranità targato UE. Un parlamento di nominati, una maggioranza assoluta rappresentata da una sola lista, un Presidente del Consiglio legato a quella maggioranza e infine un capo dello Stato che è espressione di quella maggioranza senza nessun contrappeso od oppsozione che possa avere un minimo di efficacia sono degli ottimi ingredienti affinché passi attraverso delle ratifiche tutto ciò che si decide a Bruxelles esautorando del tutto la democrazia e la sovranità popolare. Ecco perché votare NO a questo referendum è un atto di resistenza assolutamente necessario. Non si tratta di essere “conservatori” e di non andare avanti (cosa che i media cercheranno di far passare da qui al giorno prima del referndum) ma di fare in modo che non si dia vita a una pericolosa monocrazia che faccia gli interessi di quella tecnocrazia ancor più pericolosa e criminale, disinteressandosi del popolo.

lunedì 21 marzo 2016

ISIS o anche “cattiva coscienza” dell’Occidente (considerazioni personali, parziali ed assolutamente non obiettive)

di Vincenzo Cerulli

Si parla sempre di più dello “Stato Islamico” dal punto di vista economico e geo-politico ma qui vorrei portare il dibattito su un altro scenario. L’ISIS non può essere ridotto a mero fenomeno terroristico immanente alla sola epoca che viviamo, l’ISIS è un fenomeno che oltrepassa le semplici coordinate storiche e per guardarlo bene negli occhi, di conseguenza, dobbiamo anche noi astrarci da esse. La prima caratteristica che salta agli occhi è che l’ISIS nasce come movimento oppositivo alla quotidianità occidentale, alla ”way of life” americana(almeno nel modo in cui il Califfato si presenta massmediaticamente). Questo non è assolutamente un dettaglio di second’ordine, poiché in assenza del motivo oppositivo non avrebbe condizione di esistere. Quindi possiamo affermare che la principale condizione d’essere dell’ISIS è la sua connaturata opposizione alla “maniera di vivere occidentale”, la sua “natura” mette in dubbio la nostra. L’Occidente (che è oggi una semplice “estensione” dell’America) trova nello Stato Islamico il più radicale impedimento alla sua assolutizzazione in una forma compiuta, è l’Altro che non possiamo conoscere, l’Estraneo più totale che non possiamo assumere. Mi si potrà obiettare che ci sono altri stati che si oppongono all’occidentalizzazione del mondo. Certo che ci sono: penso alla Russia, all’Iran, alla Cina, al Venezuela, alla Siria; ma questi stati, in fondo, parlano lo stesso linguaggio del nostro occidente, pensano attraverso gli stessi schemi concettuali che utilizziamo noi. Questo non possiamo dirlo per l’ISIS, l’estrema barbarie che mostrano nei video (sarebbe motivo di riflessione anche il rapporto conflittuale fra barbarie e tecnologia massmediatica che vi troviamo) si sottrae ad ogni “logica”, ad ogni ratio cui siamo soliti, ad ogni calcolo. La loro furia iconoclasta ci spaventa proprio perché illogica, irrazionale, non ce la spieghiamo e dunque cadiamo nel baratro del dubbio: “Perché? A che pro?”. Qui sta il nostro errore fatale, nel cercare un “pro”, un utile.
Dovremmo aver imparato che l’utile, figlio del pragmatismo, è ormai la cifra del pensiero occidentale quasi in ogni ambito, ogni azione viene intrapresa solo se precedentemente ha superato il calcolo della “convenienza”. Per questo noi europei non “esistiamo” più, perché la Storia può essere squassata solo da azioni eroiche e queste non coincidono quasi mai con scelte “razionali e convenienti”, siamo completamente imbevuti di pragmatismo calcolante, per questo oggi non possiamo mettere in moto la Storia. L’utile però non è di certo la cifra del loro pensiero.  “La forza dell’ISIS sta nella nostra debolezza. Di là uomini con valori fortissimi, sbagliati che siano, disposti ad andare a morire con la disinvoltura con cui si accende una sigaretta, di qua una società svuotata di ogni valore, a cominciare dal coraggio.” Questo ci raccontava Massimo Fini in un articolo pubblicato il 18\11\15 sul “Fatto Quotidiano” e continuare a negare questo fenomeno significherebbe ancora di più far avanzare il deserto di valori in cui l’Europa sta soffocando. Devo ora fare un paio di precisazioni. Non intendo assolutamente dire che all’interno della Storia non ci siano azioni ponderate a lungo e ben esaminate ma è sotto gli occhi di tutti che al giorno d’oggi  il “pensiero calcolante” ha completamente assopito l’istinto di milioni di persone. Un’altra precisazione doverosa è che l’ISIS un fine pratico ce l’ha, il controllo del Sirak e l’instaurazione dello Stato Islamico su territori sempre più vasti.  Dunque ora dobbiamo chiederci cosa li accomuna a noi, e qui ci rendiamo conto che non sono poi così “estranei” come si accennava prima. Due “dispositivi” ci legano indissolubilmente: il denaro e la tecnica. Il denaro, “sterco del demonio”, viene accaparrato dall’ISIS principalmente in tre modi: vendendo il petrolio sottobanco, contrabbandando opere d’arte e con i pagamenti di riscatto degli ostaggi. Sappiamo ormai tutti che la Turchia per mesi ha acquistato a prezzi più bassi il petrolio dai miliziani di DAESH, il mercato nero delle opere d’arte è internazionale ed inarrestabile e i territori in cui campeggia la bandiera nera dell’ISIS non sono solo sassi e sabbia come molti potrebbero suppore; ma una riserva inestimabile di rarità archeologiche. Basta poi citare gli “sponsor” maggiori di DAESH e subito ci accorgiamo che il sedicente Stato Islamico è salvaguardato da un “fondo di garanzia” abbastanza ampio: Qatar, Emirati Arabi ed Arabia Saudita su tutti. Oltre al denaro ad accomunare noi uomini occidentali qualunque e i miliziani dell’ISIS c’è la “tecnica” che nel caso di DAESH si esprime maggiormente nell’enorme potenza mediatica di cui dispongono. Ogni loro azione si riflette a livello planetario attraverso i social network e i telegiornali che, quasi quotidianamente, ci mettono di fronte alla loro violenza. Attraverso la propaganda riescono ad ammaliare migliaia di musulmani che vivono in Europa, anche da due o tre generazioni, comunque non assimilati dunque non europei. Per anni politiche migratorie e di accoglienza criminali hanno illuso l’Africa intera e il Medio Oriente di poter accogliere tutti indiscriminatamente, senza tenere conto minimamente di differenze socio-culturali millenarie. La grande illusione del nostro secolo, quella di poter essere tutti “classe media”, ha illuso anche le schiere di immigrati che approdavano nei nostri lidi. Quando si è schiavi di un’illusione si cade nel risentimento se quella speranza non si concretizza. L’accoglienza si è risolta in ghettizzazione nelle periferie e le diverse culture non si sono incontrate perché non avevamo nulla da offrire, l’Europa teme di perdere la propria identità ma dovrebbe prendere coscienza del fatto che l’ha persa da anni, e di certo non per colpa dell’immigrazione. Quindi questi giovani musulmani si trovano sospesi nel vuoto, in un limbo esistenziale: persi fra le radici che hanno cercato di lasciarsi alle spalle e una cultura che non li ha accolti perché inesistente anche per i “veri” europei. Dobbiamo evidenziare il fatto che non hanno trovato alcuna identità culturale ad accoglierli ma, piuttosto, hanno trovato una fecondissima subcultura che li ha alienati ancora di più. Il ruolo fondamentale di questa subcultura sradicante è stato ben evidenziato da Sebastiano Caputo in un suo articolo per “Il Giornale”("Dal rap al Jihad: i kamikaze sono un prodotto della subcultura occidentale"). A me  piace pensare che questi giovani apolidi (pesantemente influenzati dagli inni alla Jihad di matrice hollywoodiana  e dalla sub-cultura di cui sopra) hanno messo in pratica quel che dice William Faulkner: “Fra il dolore e il nulla io scelgo il dolore”. Estranei in un Europa aliena anche per noi europei hanno forse sentito la nostalgia per ciò che gli era più lontano, le radici perdute, il deserto, l’Islam.  A differenza nostra hanno scelto il “dolore” e si sono fatti foreign fighters ; noi abbiamo scelto il nulla e beatamente continuiamo a fluttuarvi all’interno. Ora ci troviamo ad affrontarli e questi giovani musulmani portano l’Europa ad un doveroso redde rationem, il colonialismo passato e la pretesa superiorità culturale tornano a noi con un colpo di frusta pericolosissimo. Iniziamo a scorgere nell’ISIS la cattiva coscienza dell’Occidente, lo specchio rotto in cui non vorremmo mai guardare. Quando finalmente sceglieremo anche noi di tornare ad esistere come italiani ed europei potremo cominciare a preparare il dialogo con paesi e culture molto più liberi dei nostri.

Risposta senza domanda


di Valerio D'Agostini


In questi ultimi mesi sembra che stia prendendo piede sul panorama europeo la tanto accusata e denigrata teoria economica neokeynesiana. Ci si è accorti, infatti, che ciò che sta affossando davvero l'economia reale non è la mancanza di liquidità, ma la carenza di domanda aggregata, senza la quale ci si può aspettare ben poco da parte di un Paese anche nel caso in cui questo mettesse in atto le manovre e riforme più sentite dalla comunità internazionale. L'Eurozona vive ciò ormai da anni, senza che BCE, Corte dei Conti, Commissione europea o altri organi abbiano mai mosso il ben che minimo dubbio sulle politiche di austerity. Questo fino a qualche tempo fa. Adesso invece stiamo assistendo ad un cambiamento radicale, con interventi a favore di un allentamento dei vincoli economici mai visti prima. La flessione è avvenuta a partire dallo scorso anno con il Quantitative Easing promosso da Mario Draghi (che comunque sta portando a ben poco); ma la vera svolta è probabile che si vedrà da qui a qualche mese, auspicabilmente con aumenti di spesa pubblica in vista di deficit di bilancio maggiori. Non è un caso che anche giornali economici come Il Sole 24 Ore, notoriamente filogovernativi, stiano sottoponendo proprio in queste ultime settimane il problema della carenza di domanda. È forse giunto veramente il momento di allontanamento da politiche di stampo neoclassico?