domenica 20 dicembre 2015

Nicola Bombacci: rivoluzionario incendiario



di Vincenzo Cerulli

Parlare di Nicola Bombacci comporta dei rischi. In queste righe non si vuole esaurire la biografia di Bombacci, per un’impresa del genere è richiesta una cura delle fonti ed una ricerca storica di cui attualmente non si dispone; l’autore scrive per debito morale, per strappare definitivamente dal cadavere di Nicolino quell’infame cartello con su scritto “super-traditore”. Chi scrive a riguardo sa già sempre che riceverà delle critiche aprioristiche da parte di chi non riesce ad accettare che un uomo possa essere andato al di là del proprio credo politico, di facili sicurezze economiche, dei propri affetti e perfino delle proprie amicizie, pur di difendere, fino alla morte, la classe operaia. Bisogna però prendere coscienza del fatto che un uomo che ha sacrificato tutte le proprie forze fisiche ed intellettuali, per tutto l’arco della propria vita, in favore del proletariato, meriti di essere ricordato con l’onore che gli spetta al di là della vulgata media che rintrona da ambo i lati. Dunque riesumiamolo, senza fronzoli di sorta o anacronistici rancori.
Nicola nasce a Civitella di Romagna il 24 Ottobre del 1879. Fra i dirigenti socialisti durante il I conflitto mondiale e nell'immediato dopoguerra, sposa Lenin e la Rivoluzione d’Ottobre e contribuisce ad infiammare quegli anni di proteste e speranze accendendo le folle proletarie che lo adoravano. Abbandona il partito socialista, la cui maggioranza non aveva intenzione di applicare il programma leninista ed era incline ad un riformismo che lui e i suoi più stretti compagni non potevano più tollerare. Così fonda il partito comunista assieme a Gramsci, Bordiga, Fortichiari, Terracini e Damen al teatro San Marco. Purtroppo in quegli anni le occasioni mancate furono molte, troppe, i tempi erano fertili per una rivoluzione sulla scia di quella russa, il disordine era grande; ma a sfruttarlo meglio furono i fascisti, questo non può essere negato. Proprio per questa mancanza di pragmatismo, in questo non riuscire a cogliere le occasioni che il periodo storico proponeva, Bombacci criticava aspramente il partito da lui fondato e diventava sempre più inviso agli altri membri dirigenti. Togliatti gli rimproverò questo aspetto del carattere. Del romagnolo non gli andava giù l’eccessiva tensione pragmatica, quell'enorme sforzo (assente soprattutto oggi) di coniugare teoria e prassi in una forma realizzabile. Salito al potere Stalin, e cambiati gli equilibri di potere all’interno del PCI, nel ’27 viene espulso dal partito che lui stesso aveva fondato per “indegnità politica”. Così Nicolino si trovò solo, il socialista rivoluzionario di cui gli squadristi fascisti nel ’22 cantavano: “ Con la barba di Bombacci, ci farem gli spazzolini, per lucidar le scarpe di Benito Mussolini!” era stato abbandonato dai suoi compagni di lotta. Non ricevette mai la tessera del PNF ma dialogò spesso con Mussolini e tutto il paese fascista, soprattutto grazie alla rivista che il Duce gli lasciò fondare: “La Verità” (“Pravda” in russo) operante dal ’36 al ‘43.E’ merito suo se l’Italia fascista fu il I Stato al mondo a riconoscere ufficialmente la nuova Russia comunista. Questa e molte altre manovre diplomatico-economiche da lui caldeggiate esprimono nitidamente la sua forte avversione per il capitalismo anglo-americano e per lo strapotere coloniale di Francia e Inghilterra. Fino alla fine resterà accanto al Duce per difendere gli operai. Vedeva nella repubblica sociale la possibilità di attuare il socialismo come lui lo intendeva, senza interposizioni di plutocrazie, massoni e decisioni del Re. Purtroppo nemmeno qui il suo sogno si realizzò: la tremenda crudeltà di alcune frange di repubblichini, soldati tedeschi e le ingerenze di una parte del governo non resero possibile la socializzazione totale della vita pubblica da lui agognata per oltre quarant’anni. Pochi giorni prima della capitolazione finale, davanti ad una folla in delirio di tremila operai, cantò per l’ultima volta i suoi ideali più alti e incitò tutti a resistere in quella “dura ora che la Patria vive”. Era il 15 Marzo. Una quarantina di giorni dopo Bombacci salì sulla stessa macchina di Mussolini per organizzare l’ultima resistenza nella Valtellina. Descrive l’episodio il figlio di Mussolini, Vittorio, quella sera in macchina con loro: ”ho pensato al destino di questo uomo, un vero apostolo del proletariato, un tempo nemico accanito del fascismo e ora a fianco di mio padre senza alcun incarico né prebenda, fedele a due capi diversi fino alla morte”. Perché è proprio per che questo che Nicola Bombacci è stato seppellito dalla storia, il suo oltrepassare le dicotomie statiche e fisse (per questo oggi pericolose, perché in quanto tali fissano e anestetizzano il dibattito politico) di comunismo/fascismo, destra/sinistra lo rende impossibile da categorizzare all'interno di un manuale e la sua parabola politica è oggetto di dibattito solo in ambienti privilegiati. Il libro di Daniele Dell’Orco (Nicola Bombacci, tra Lenin e Mussolini) ce ne restituisce una figura dignitosissima, ereditiamo un uomo più grande delle ideologie del suo tempo ed è proprio questo un motivo su cui riflettere. Superare le dicotomie è oggi più urgente che mai. Superarle non significa metterle da parte; significa piuttosto mettere al centro l’uomo politico e fare in modo che esse siano dei dispositivi a cui ricorrere e non viceversa.

lunedì 14 dicembre 2015

Carte scoperte: il fronte repubblicano ferma quello Nazionale


di Simone Mela

Alla fine c’è stata la “sentitissima riflessione” degli elettori francesi durante la settimana che ha preceduto la seconda tornata prevista da un sistema elettorale maggioritario a doppio turno. Appena una settimana fa Il Front National si era imposto in sei regioni su tredici registrando risultati clamorosi. In Nord-Passo di Calais- Piccardia e in Provenza-Alpi- Costa Azzurra, dove erano candidate rispettivamente Marine e sua nipote Marion Le Pen, la fiamma tricolore aveva varcato l’incredibile soglia del 40% e si era affermata come primo partito nazionale con il 29,5% dei consensi. La risposta del “sistema” però non si è fatta attendere. Il primo ministro Manuel Valls, socialista, ha paventato l’idea di una guerra civille nell’eventuale caso che il Fn si fosse riconfermato, provocando, così facendo, una maggior affluenza (il 58,5% contro il 51% di domenica scorsa) di elettori che, spinti dalla paura dello “spettro fascista” si sono recati di corsa alle urne. In più, sempre Valls, in ottemperanza al motto socialista del “Non votiamo per qualcuno, ma perhé qualcuno non ce la faccia” ha ammonito i candidati del suo partito nelle regioni in cui erano arrivati terzi di ritirarsi, spianando la strada di fatto ai repubblicani di Sarkozy. O fronte repubblicano o morte. Si potrebbe riassumere così il principio che hanno fatto trapelare le istuzioni francesi. E così è stato. Il Fronte Nazionale non conquista nessuna regione. Marine cede il passo al candidato gollista Xavier Bertrand che prende più del 58%, stessa storia in Alsazia-Champagne-Ardenne-Lorena dove era candidato il numero due del FN, Florian Philippot, e nel sud-Est che vede Marion sconfitta con il 44,2% dei voti contro il 55,8% del repubblicano Christian Estrosi, ex sindaco di Nizza.
Il fronte repubblicano batte Il Fronte Nazionale ma la guerra è appena cominciata. Il colpo si è fatto sentire e come. La cosiddetta alleanza UMPS ha retto questa volta ma in futuro non è detto che andrà sempre così. Il prezzo che socialisti e repubblicani hanno dovuto pagare, infatti, è stato quello di aver dimostrato che alla fin fine sono due facce della stessa medaglia, due fazioni che sostengono il progetto neoliberista europeo, due fazioni asservite alla NATO e all'UE, due fazioni che hanno destabilizzato la Libia e cercato di destabilizzare la Siria, e ancora, due fazioni che hanno rifiutato il dialogo con Putin fino a quando, dopo i fatti del 13 novembre scorso, si sono trovati con le spalle al muro. La Le Pen e il suo partito mettono in discussione tutto questo rilanciando un programma di sovranità nazionale moderno. Fanno paura. Una paura che non è quella del ritorno al manganello come sostiene il circo mediatico, ma quella connessa alla frantumazione di questo orribile quadro mondialista ed europeo. La Le Pen all'Eliseo fra diciotto mesi, in occasione delle presidenziali, rappresenterebbe la prima luce accesa in questa Europa buia e arida. Il popolo francese ha cambiato gli equilibri di questo continente più di una volta e chissà che non sia destinato nuovamente nell'impresa. Spero che la prossima volta abbia un po’ più di coraggio dando fiducia all'unico partito che lo difende e sostiene, partito che, peraltro, non ha mai governato e che quindi ha tutto da dimostrare.
Chiudo dicendo che se dovesse andare come ci si aspetti, mi auguro che il popolo italiano non si faccia trovare impreparato all'appuntamento con la Storia.

martedì 1 dicembre 2015

Tour Saint Jacques


di Menno Gabel

«Tristo l' allievo che non supera il maestro»
Spesso è il destino delle cose inanimate che ci permette di capire meglio, senza temere di essere depistati da ipocrisie, rimozioni, ripensamenti di comodo, ciò che veramente gli uomini rappresentativi di un’epoca hanno apprezzato o disprezzato, amato o odiato.
Al centro di un giardino al centro di Parigi si slancia al cielo la Torre di San Giacomo, o per meglio dire il campanile superstite della chiesa di Saint-Jacques-de-la-Boucherie, il venerato santuario gotico demolito nel 1793 dalle volonterose manovalanze rivoluzionarie della Rivoluzione Francese. Dicono che il campanile fu risparmiato per il suo particolare valore architettonico. Lo dicono gli eredi dei demolitori, ma noi sappiamo che il campanile si salvò non perché reliquia anche degli esperimenti di Blaise Pascal sulla pressione atmosferica, ma perché qualche industrioso borghese aveva intuito che la torre sarebbe stata più vantaggiosamente riconvertita in redditizia Tour à plomb, fabbrica di palle di moschetto per le armate della Repubblica secondo il processo inventato appena dieci anni prima dall’ ingegnere Watts di Bristol. Le campane rese inutili dall’abolizione delle feste religiose, delle settimane e delle domeniche sarebbero poi diventate cannoni.
La Tour Saint Jacques, oggi ammessa dall’UNESCO a far parte del patrimonio artistico dell’Umanità, è un significativo esempio di come la Rivoluzione Francese ha saputo valorizzare il patrimonio artistico ereditato dalle generazioni prerivoluzionarie. Quando anche i nostri intellettuali si indignano di fronte alla distruzione dei Buddha di Bâmiyân o del Tempio di Bel a Palmira devono assolutamente ricordarsi che il vandalismo non l’hanno certo inventato i Vandali, ma è una parola inventata apposta dall’Abbé Grégoire, un vescovo rinnegato messosi al servizio della Rivoluzione, per cercare di scoraggiare e frenare un po’ la sistematica spoliazione e distruzione di tantissime opere d’arte che hanno fatto la stessa fine del santuario di cui fu parte il campanile riconvertito a fabbrica di palle e pallini da guerra e da caccia.
Se pensate che sia irriguardoso confrontare il comportamento dei “tagliagole” dell’ISIS con i ghigliottinatori della Rivoluzione da cui anche Hollande è orgoglioso di discendere, pensate al destino dell’Abbazia di Cluny.
Nel 1789 quell’arcipelago di capolavori e tesori divenne “bene nazionale” a seguito del decreto del 2 novembre di quell’anno che confiscò i beni della Chiesa. Cominciava un tempo micidiale per gli edifici monastici e per l’abbazia. I Rivoluzionari nel 1791 distrussero con le mine gli edifici dopo averli svuotati di tappezzerie, suppellettili e oggetti di culto da rivendere al dettaglio. Gli archivi furono bruciati nel 1793 e la chiesa abbaziale fu abbandonata ai saccheggi. La tenuta dell’abbazia nel 1798 fu venduta per più di due milioni di franchi. L’8 maggio 1810 fu fatta saltare la facciata e il grande portale. L'abbazia fino al 1813 fu usata come cava di pietra per costruire le case del borgo vicino. Dell’edificio originario così non resta oggi che l’8%.
I “tagliagole” dell’ISIS sono diventati quasi altrettanto bravi dei loro esemplari poco occulti committenti.

(pubblicato originariamente sul numero 1 della rivista "La Voce del Padrone")

Compendio della quinta conferenza


di Simone Mela

Lavoro salariato e capitale" è una raccolta di cinque articoli che Karl Marx pubblicò per la Gazzetta Renana nell'aprile del 1849, i quali articoli prendevano come oggetto le rispettive cinque conferenze che il filosofo di Treveri tenne all’“Associazione degli operai tedeschi” di Bruxelles affinché il contenuto delle sue ricerche scientifiche potesse essere accessibile e divulgato presso il grande pubblico.
Quello che vorrei tentare di fare, con le necessarie dovute proporzioni, è di riproporre nella maniera più semplice il contenuto della quinta conferenza. In essa Marx si pone lo scopo di analizzare l’incidenza che la crescita del capitale produttivo ha sul salario. Il salario è il prezzo della merce forza-lavoro che l’operaio cede al capitalista. Questa merce viene pagata in base ai costi necessari per produrla, ossia i costi necessari per mantenere in vita l’operaio. Si potrebbe dire che il dominio del capitale produttivo abbia una sorta di effetto domino. Il primo passo prevede l’eventuale aumento del capitale produttivo; aumentando il capitale produttivo cresce la dimensione del capitale e il numero dei capitalisti. Cresciuto il numero di questi ultimi si crea una concorrenza che sarà vinta dal capitalista che venderà a prezzi migliori. Per fare ciò deve aumentare la forza produttiva e quindi mettere a punto la divisione del lavoro combinata al miglioramento dei macchinari. Questo che cosa significa? Significa che tanto più grande diventa il numero degli operai tra i quali viene diviso il lavoro, tanto più vantaggioso diventa il lavoro. Le innovazioni messe in atto da quel capitalista verranno universalizzate dagli altri capitalisti e quindi per venirne a capo nuovamente, si dovrà attuare un’ulteriore divisione del lavoro e utilizzare macchinari migliori. Badate bene che questo processo è infinito e ha come risultato quello di rendere il lavoro dell’operaio sempre più semplice e monotono, in quanto ogni operaio compierà il lavoro di cinque, dieci, quindici operai. Inevitabile a questo punto che il nostro operaio crei la concorrenza con altri operai trasformando questi ultimi in altrettanti concorrenti perché se questo si venderà a prezzi sempre più vantaggiosi per il capitalista, allora anche gli altri operai saranno costretti a vendersi alle stesse condizioni. Morale della favola? La forza-lavoro, che è una merce, più sarà semplice e priva di sforzi fisici e mentali, più bassi diventeranno i costi di produzione della merce forza lavoro. Conclusione? Maggiore è il capitale produttivo, minore sarà il salario. Lo stesso vale per l’uso di macchinari sempre più avanzati. Questi, infatti, spazzeranno via tutti quegli operai specializzati, omologandoli agli altri operai: semplici forze produttive. Abbiamo cominciato il nostro discorso dicendo che i capitalisti entrano in concorrenza tra loro, anzi in una guerra industriale, come la chiama Marx; questa guerra, paradossalmente, viene vinta dal capitalista che riuscirà a sfoltire, tramite il licenziamento, e non ad aumentare le schiere di operai a sua disposizione. Questo per il semplice motivo, già accennato prima, che i macchinari provocano il licenziamento di operai, i quali si troveranno a lavorare nelle fabbriche di quegli stessi macchinari che hanno causato il loro licenziamento. L'operaio finisce per occupare, tristemente, il ruolo di macchina imperfetta che darà vita a macchinari perfezionati.

(pubblicato sul numero 1 della rivista "La Voce del Padrone")

L’economia per la guerra o la guerra per l’economia?


di Valerio D'Agostini
Fin da subito, da quando ha imparato ad organizzarsi socialmente, l'uomo ha sempre avuto l'istinto animale della conquista e della dominazione.
Ciò che differenzia i conflitti militari dal momento precedente a quello successivo l'industrializzazione è la differente posizione dell'economia nel guerresco. Partendo dal fatto che la guerra si è sempre svolta per motivi economici e geopolitici (i quali sottintendono, quasi sempre, comunque altri motivi di natura economica), si è sempre visto, dall'antica Grecia fino alla Guerra dei Sette Anni, che poche erano le potenze politiche impegnate nei conflitti, le stesse che potevano permettersi un grande esercito ben organizzato e addestrato in grado da sottomettere quelle popolazioni che poi sarebbero state inglobate in un primo, embrionale, progetto cosmopolita. Era quindi prettamente l'economia che serviva alla guerra: più era ricca una potenza, migliore sarebbe stato il suo apparato militare e quindi tanto maggiore la sua portata di influenza.
Con l'avvento dell'industrializzazione e del libero mercato questa tendenza è andata invertendosi, perché crescendo sempre di più la concorrenza economica non solo tra Stato e Stato, ma tra continente e continente, la guerra viene sempre più vista come elemento di riscatto da una situazione di declino o come mezzo per accrescere ancora di più la propria influenza su territori spesso molto distanti, e quindi non più legati anche a ragioni di coesione territoriale in una determinata zona come, invece, accadeva prima. Per questa sua capacità di smuovere gli assetti politici, e quindi economici, altrimenti destinati ad essere ciò che viene definita "stagnazione economica" in senso lato, la guerra è diventata, in un certo senso, il processo di avvio di quell'intero sistema di interessi volto al raggiungimento del profitto sotto forma di svariati approcci, anche chiamato economia.

(pubblicato originariamente sul numero 1 della rivista "La Voce del Padrone")

Francia apriporte della Germania


di Simone Mela

Nell'immaginario comune la Germania, almeno apparentemente, viene considerata la locomotiva di Europa, la prima potenza economica europea, un modello irraggiungibile per noi “poveri, furbi e pigri italiani”. L'origine di questo primato va sicuramente individuata nella creazione dell’unione monetaria e quindi nell'introduzione del famigerato euro. Anche centoquarantacinque anni fa (1870) lo scenario in Europa era molto simile. Quello che cercherò di raccontarvi è un curioso ritornello della storia in base al quale il dominio teutonico sul continente è legato a doppio filo con un’altra nazione: limitrofa e da sempre odiata. La Francia. Vediamo perché.
Nel 1870, dal 31 agosto al 2 settembre, a Sedan (Francia nord-ovest), si combatté la guerra franco-prussiana tra la Prussia di Bismark e la Francia di Napoleone III. La battaglia fu vinta nettamente dal Cancelliere di ferro e l’imperatore francese, fatto addirittura prigioniero dai prussiani, fu costretto a capitolare. La Prussia riuscì ad annettere le regioni francesi dell’Alsazia e della Lorena che andarono a completare il processo di unificazione intrapreso dalla Prussia, il quale portò alla creazione del moderno stato tedesco. Sviluppo economico e incremento demografico permisero alla Germania di candidarsi per il posto di potenza egemone europea che era occupato dalla stessa Francia e prima ancora dalla Spagna. Benedetto Croce a conferma di quanto detto scrisse nella "Storia d’Europa nel secolo decimonono": <<La guerra del ’70, che fu una sequela quasi ininterrotta di trionfi militari, attuò l’unione degli stati meridionali con la Confederazione del nord, [...] Sorgeva così la potenza e, al luogo di quella francese, la preponderanza tedesca nel continente europeo>>. La Francia rappresentò l’ultimo ostacolo da superare prima della completa unificazione della Germania e del successivo dominio sull'Europa della stessa.
Circa centoventi anni dopo si presenta, come detto, se non identico uno scenario molto simile. Siamo a cavallo fra gli anni ’80 e ’90. Questa volta non viene fatto prigioniero nessuno (semmai lo saranno i popoli in seguito), non si combatté nessuna guerra: si tratta di un accordo fra il presidente francese François Mitterrand e il Cancelliere tedesco Helmut Kohl. Dalla fine della seconda guerra mondiale la Germania era divisa in due: la Repubblica federale tedesca a ovest e la Repubblica democratica tedesca a est. Il blocco sovietico si stava dissolvendo. Nell'estate 1990 venne firmato tra la BRD e la DDR l’accordo di riunificazione e il 3 ottobre ebbe compimento la definitiva unione politica della Repubblica federale tedesca. Ma in che modo la Francia contribuì alla riunificazione della Germania e alla relativa leadership ottenuta in seguito? La paura. Il ricordo della seconda guerra mondiale non si era ancora del tutto dissolto. Una Germania unita avrebbe rappresentato la terza potenza mondiale dietro USA e Giappone. Il presidente francese Mitterrand la notte stessa dell’unione politica, come ci racconta Vladimiro Giacchè, annota al suo segretario Attali che bisognava stemperare la Germania a tutti i costi. “Il marco è per la Germania, quello che la bomba atomica è per la Francia’’, si diceva all'epoca nei corridoi dell’Eliseo. La ragnatela che, secondo Mitterrand, poteva imbrigliare la neonata Repubblica tedesca impedendole di decollare era una maggiore integrazione europea. Da qui il trattato di Maastricht nel 1992, voluto da Mitterrand, e la successiva moneta unica. Si trattò di un accordo dunque. La Francia appoggiò la riunificazione tedesca ma in cambio chiese alla Germania di rinunciare al suo tanto amato quanto potente marco. A riguardo Peer Steinbrück, ex capo del Partito Socialdemocratico tedesco (SPD), scrive in un suo libro: <<L’abbandono del marco tedesco in cambio di un euro stabile è stata una delle concessioni che hanno aperto la strada alla riunificazione tedesca>>, o ancora, Hubert Védrine, consigliere del presidente Mitterrand disse: <<Mitterrand non voleva una riunificazione tedesca senza un progresso nell'integrazione europea>>.
Come sostiene Paolo Becchi, si cercò di europeizzare la Germania ma si finì per germanizzare l’Europa. Germanizzare l’Europa perché, tanto per dirne una, si è voluto imporre il modello tedesco basato sulla riforma del mercato del lavoro di Schröder: la Germania ha aumentato la produttività ma non ha trasferito niente sui salari dei suoi cittadini basando, quindi, tutto sull'esportazione. In questo modo i paesi meno produttivi dell'Eurozona per recuperare competitività, essendo impossibile svalutare la propria valuta nazionale a causa della moneta unica, devono svalutare i salari (le cosiddette riforme strutturali) causando forti squilibri dovuti al calo della domanda interna e della produttività. La Francia voleva imbrigliare la Germania ma ha finito per imbrigliare tutti noi.
Le guerre non si combattono più solo con cannoni e fucili ma anche con i trattati e così, come nel 1870 i francesi hanno spianato la strada, magari indirettamente, al dominio tedesco in Europa. Visto che Sedan ha acceso nazionalismi che sono sfociati in due guerre mondiali, speriamo che l'Eurozona si dissolva prima che si versi ulteriore “sangue”.

(pubblicato sul n°1 della rivista "La Voce del Padrone"

Ladolescenza


di Leonardo Boanelli

“Crescere, formarsi, nell’insieme, corpo e mente non è solo un periodo cronologico, una fase storica personale, è di più: si è altro. Si è in un’altra forma, come la pupa di un insetto. È un’altra vita non un pezzo di quella da adulto. È un altro luogo, non un altro tempo”. Come un dj, di una trasmissione musicale notturna, parla confidenzialmente al proprio pubblico nello stacco tra un brano e l’altro così Marco Dambrosio, in arte Makkox, nel suo albo alla francese con variazioni fa una compilation costituita da piccole emozioni affini racchiuse in singoli racconti. Il risultato è una qualità emotiva che trascende i singoli brani, ti prende per mano, ti porta nell’adatto mood dolcemente fino a raggiungere il climax ed infine lasciarti andare con un grano di nostalgia in cuore. L’ obiettivo di Makkox: una persistenza sorretta in bilico sull’inespresso. Ma perché nell’era del fumetto digitale, dal formato jpeg, un artista, con un’ampia esperienza sul web, torna alla stampa? Makkox ama la carta, la stampa su carta, non necessariamente solo il fumetto su carta, anzi è critico nei confronti della richiesta degli editori ad adeguarsi a format “fumettistici” rigidi, quelli che imbrigliano l’opera a un pubblico di lettori-di-fumetti-e-basta. Per Makkox conoscere la totalità del processo produttivo tipografico è per un fumettista come per un violinista saper costruire il proprio violino. Ed ama definirsi scarso violinista, ma buon liutaio. Ci tiene a sottolineare la qualità della carta di pura cellulosa della grammatura del suo albo, rilegato a filo, non semplicemente incollato. Gioca nel descrivere al lettore come la copertina, pur essendo della stessa carta dell’interno, è due volte e mezzo più pesante di quest’ultima. Ed in ultimo come un artigiano che si compiace del suo manufatto di cui non è sposo(lettore) né padre(editore) ma amante, descrive come la copertina non essendo tagliata a filo con le pagine ha le bandelle piegate per offrire al pollice “quel dentino lì che dici ora apro e lo leggo, oppure rimani a fare flip flip che ti piace sentire quella listella sporgente sotto il pollice”. Makkox rimpiange dell’adolescenza cose banali che molti hanno cantato: la spensieratezza, le varie verginità, la fiducia di essere immortali, ma anche le paure, i dolori. Al presente tuttavia il fumettista non ha nulla da rimproverare, vede in giro molta voglia di leggere, un desiderio che viene da lettori non da lettori-di fumetti-e-basta. “E poi?”. “Lo devi scrivere al posto di “fine” nei tuoi fumetti.”. “Cosa?”. “E poi?”. Così termina uno dei racconti dell’albo di Makkox ma lo scoprirete da soli, poi.

Fonti: makkox.it
www.comicus.it
www.ninjamarketing.it


(pubblicato originariamente sul n°1 della rivista "La Voce del Padrone")