giovedì 12 novembre 2015

AAA Olio d'oliva italiano cercasi


di Gianluca Boanelli

Ogni abitante della penisola che si rispetti è inevitabilmente portato, in qualsiasi discussione svolta sul Bel paese, a tirare in ballo l’eccellenza della cucina italiana, soprattutto nel contesto attuale in cui oggettivamente sembra emergere con forza come una sorta di “scialuppa di salvataggio” della ormai naufragata economia italiana. Eppure ci troviamo, ahimè, a dover prestare attenzione al nostro piatto che tanto difendiamo in quanto, sempre più spesso, quello che sembra tricolore sostanzialmente potrebbe non esserlo.
La bufera sull’olio d’oliva scatenatasi proprio nel pieno della stagione, periodo in cui la filiera produttiva affronta i maggiori costi, è stata subito inserita tra le tante frodi di commercio nel settore alimentare italiano anche se, non me ne vogliano gli esterofili, l’Italia questa volta c’entra ben poco.
La testata di tutela dei consumatori, che aveva preso in considerazione a maggio 20 bottiglie di olio extravergine declassandone ben 9 a olio vergine per la presenza di difetti organolettici, ha aperto gli occhi del consumatore sull’operato di grandi marchi quali Carapelli, Bertolli, Sasso, Santa Sabina, Primadonna, Coricelli e Antica Badia. Ebbene prendendo in considerazione tali aziende delle tradizione italiana ci troviamo ormai a parlare spesso di marchi nostrani i quali tuttavia sono sottoposti da anni all’egemonia spagnola nel settore. Le due realtà più grandi che sono coinvolte nello scandalo, entrambe storiche aziende toscane, fanno parte, rispettivamente dal 2006 al 2008, del grande gruppo Sos Corporatiòn alimentaria (1,5 miliardi di euro di fatturato), fondo alimentare che controlla quasi il 50% del mercato mondiale di olio tra Spagna, Italia, Portogallo. Nonostante l’Italia rimanga il secondo player nel settore la politica di internazionalizzazione ha fatto sì che oggi nello stivale si importi più che in ogni altro paese al mondo olio d’oliva, olio ovviamente spagnolo ma anche tunisino. Da tale elemento è facile comprendere come al di sotto del Brand italiano di prestigio internazionale si nasconda poi in verità una miscela di oli con cui si cerca di sfruttare l’italianità in ottica di marketing e il basso costo dell’olio base importato, il tutto per aumentare il margine di profitto. Tuttavia la campagna produttiva del 2014, anno tra i peggiori di sempre, ha incentivato tale tipologia di approccio alla produzione, un approccio non additabile storicamente a livello strategico all’Italia, la quale è stata indirettamente coinvolta nel nuovo modo di fare business viste le difficoltà competitive della piccola e media imprese italiana con le grandi controparti internazionali. Le nostra aziende piuttosto si ritrovano a dover tutelare i proprio consumatori come stakeholder esterni e ovviamente la propria reputazione in via diretta. Anche la coldiretti è intervenuta affermando la necessità di intensificare i controlli visto l’aumento di frodi data la scarsità della produzione nell’anno passato, richiamando l’attenzione sui dati dell’import che possono in tale caso essere interpretati come un “campanello d’allarme”. Ancora una volta dunque ci troviamo a dover discutere sulla bontà delle scelte operate in passato a livello nazionale verso un’industria alimentare di massa, quando invece la nicchia di mercato sembra essere il segreto del nostro valore in questo settore (quasi il 50% degli italiano acquista almeno un DOP o un IGP almeno una volta alla settimana nonostante la crisi).
Con fiducia nelle parole del ministro delle politiche agricole Martina, che ha ribadito la rilevanza strategica del settore per l’Italia, la speranza è quella di non doverci accontentare in futuro della quanto mai realistica visione di Gianni Monduzzi sull’evoluzione del settore.
<<Una buona casa olearia passa i primi anni a spremere buone olive per farsi un buon nome. Poi trova più vantaggioso spremere il buon nome>>.
Fonte: www.Ilsole24ore.com

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