sabato 11 giugno 2016

Ci si scopre popolo - Calcio e Nazione


di Vincenzo Cerulli

Con la perfetta ciclicità che ricorda i tempi immutabili delle liturgie religiose il calcio torna a manifestarsi nella forma meno solita. Maxischermi iniziano ad essere allestiti nei giardini e nelle piazze pubbliche, pensionati nei bar fra una sigaretta e una partita a carte iniziano ad indossare le vesti da allenatore, i quotidiani sportivi tirano una boccata d’aria per il temporaneo aumento delle vendite e bandiere tricolori iniziano a spuntare come fiori fra balconi e finestre, tanto nelle periferie più abbandonate quanto nei quartieri più ricchi. Ieri la partita Francia-Romania ha aperto le danze degli Europei di calcio 2016 e gli italiani finalmente hanno l’occasione per riscoprirsi popolo. Nell’era della post-ideologia non c’è più nulla a tenere unite milioni di anime in unico corpo, non c’è un humus comune in cui coltivare un’idea di paese. Non c’è un solo partito politico nella cui idea di paese si identifichi “un popolo”, probabilmente perché nessun partito politico ha veramente un’idea di paese, tutti ripetono la stessa sostanza con una forma diversa ciascuno: qui sta la loro “differenza”, nell’esteriorità. Non esiste una religione “di stato” in cui un popolo crede sinceramente ed ingenuamente: la maggior parte degli italiani vive il cattolicesimo come catechismo, tradizione, obbligo e nient’altro, dunque non c’è niente di trascendente in cui un popolo si possa identificare, un Dio attorno a cui stringersi. Nessuna idea (le ideologie manco a dirlo) che metta in relazione realtà confliggenti per portarle a compimento in uno scopo comune, nemmeno nei movimenti o nelle forze metapolitiche extraparlamentari trovano identificazione le masse scomposte che tanto hanno influito nella storia del ‘900 con “l’acclamatio” del leader politico.  Nulla, un vuoto totale; eccezion fatta per il calcio, non qualunque tipo di calcio eh, non i campionati o le coppe di club: a tenere unito un popolo oggi ci riesce solo la Nazionale.

Vorremmo qui tracciare alcune convergenze fra il ruolo che svolge oggi la Nazionale in Italia e il Sovrano nelle opere di Carl Schmitt. Nella sua visione di “politico” Schmitt vuole assolutamente evitare che lo Stato sia il campo di battaglia delle lotte intestine fra partiti perché il risultato è il continuo stato di “bellum omnium contra omnes”: per questo si augura che nel caso d’eccezione, cioè nel momento in cui l’ordinamento giuridico vigente non riesce più a contrastare la situazione di crisi, prevalga la figura di un Sovrano che decide quale sia il bene comune in quel momento e qual è il modo migliore per perseguirlo. Riassumendo all’osso potremmo dire che il Sovrano è colui che relativizza i conflitti interni per portare poi il conflitto all’esterno dei confini nazionali, dà forma ad un popolo e unifica le parti contrastanti. Nel Sovrano il popolo si identifica e lo acclama, non ci  sono più diversi schieramenti in lotta fra loro per il potere. Nella Nazionale possiamo scorgere una fenomenologia simile: da tutti i club del mondo i migliori giocatori della stessa nazionalità si uniscono per formare una squadra “d’unità nazionale”. Fino a Maggio sguardi velenosi, gomitate ed insulti (fra De rossi e Candreva, fra Barzagli e Insigne, fra De Sciglio e Bernardeschi etc) ma quando si indossa la maglia azzurra viene sospesa la “lotta intestina” di hobbesiana memoria, finiscono le conflittualità fra giocatori di club diversi perché c’è un “nemico” contro cui ci si unisce: una Nazionale avversaria. Il conflitto non finisce, viene semplicemente spostato dall’interno all’esterno. Attorno a questa Nazionale si unisce tutto un popolo, le diverse fedi calcistiche vengono sublimate in un’unica fede: quella negli undici azzurri.


Pasolini in un’intervista diceva questo: “Il calcio è l'ultima rappresentazione sacra del nostro tempo. È rito nel fondo, anche se è evasione. Mentre altre rappresentazioni sacre, persino la messa, sono in declino, il calcio è l'unica rimastaci. Il calcio è lo spettacolo che ha sostituito il teatro”. Noi però vorremmo aggiungere che oltre ad essere l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo, il calcio è anche e soprattutto fondamento coesivo di unità popolare. Il rito di cui parla Pasolini non è privato, individuale, moderno insomma; il rito-calcio viene consumato in piazza, allo stadio o in un pub con gli amici, la fruizione privata-individuale è rarissima: il calcio è un rituale iper-popolare. I tricolori vengono esposti ciclicamente ogni due anni (sedi istituzionali a parte), questo significa che evidentemente quella bandiera alla maggior parte degli italiani fa pensare prima ad una palla che corre su un prato che a sentimenti patriottici di vario tipo. 

Il calcio è grande e Pasolini è il suo Profeta.

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