di Vincenzo Cerulli
Con la perfetta ciclicità che ricorda i tempi immutabili
delle liturgie religiose il calcio torna a manifestarsi nella forma meno solita.
Maxischermi iniziano ad essere allestiti nei giardini e nelle piazze pubbliche,
pensionati nei bar fra una sigaretta e una partita a carte iniziano ad
indossare le vesti da allenatore, i quotidiani sportivi tirano una boccata
d’aria per il temporaneo aumento delle vendite e bandiere tricolori iniziano a
spuntare come fiori fra balconi e finestre, tanto nelle periferie più
abbandonate quanto nei quartieri più ricchi. Ieri la partita Francia-Romania ha
aperto le danze degli Europei di calcio 2016 e gli italiani finalmente hanno
l’occasione per riscoprirsi popolo. Nell’era della post-ideologia non c’è più
nulla a tenere unite milioni di anime in unico corpo, non c’è un humus comune
in cui coltivare un’idea di paese. Non c’è un solo partito politico nella cui
idea di paese si identifichi “un popolo”, probabilmente perché nessun partito
politico ha veramente un’idea di paese, tutti ripetono la stessa sostanza con
una forma diversa ciascuno: qui sta la loro “differenza”, nell’esteriorità. Non
esiste una religione “di stato” in cui un popolo crede sinceramente ed
ingenuamente: la maggior parte degli italiani vive il cattolicesimo come
catechismo, tradizione, obbligo e nient’altro, dunque non c’è niente di
trascendente in cui un popolo si possa identificare, un Dio attorno a cui
stringersi. Nessuna idea (le ideologie manco a dirlo) che metta in relazione
realtà confliggenti per portarle a compimento in uno scopo comune, nemmeno nei
movimenti o nelle forze metapolitiche extraparlamentari trovano identificazione
le masse scomposte che tanto hanno influito nella storia del ‘900 con
“l’acclamatio” del leader politico. Nulla, un vuoto totale; eccezion fatta per il
calcio, non qualunque tipo di calcio eh, non i campionati o le coppe di club: a
tenere unito un popolo oggi ci riesce solo la Nazionale.
Vorremmo qui tracciare alcune convergenze fra il ruolo che
svolge oggi la Nazionale in Italia e il Sovrano nelle opere di Carl Schmitt.
Nella sua visione di “politico” Schmitt vuole assolutamente evitare che lo
Stato sia il campo di battaglia delle lotte intestine fra partiti perché il
risultato è il continuo stato di “bellum omnium contra omnes”: per questo si
augura che nel caso d’eccezione, cioè nel momento in cui l’ordinamento
giuridico vigente non riesce più a contrastare la situazione di crisi, prevalga
la figura di un Sovrano che decide quale sia il bene comune in quel momento e
qual è il modo migliore per perseguirlo. Riassumendo all’osso potremmo dire che
il Sovrano è colui che relativizza i conflitti interni per portare poi il
conflitto all’esterno dei confini nazionali, dà forma ad un popolo e unifica le
parti contrastanti. Nel Sovrano il popolo si identifica e lo acclama, non
ci sono più diversi schieramenti in
lotta fra loro per il potere. Nella Nazionale possiamo scorgere una
fenomenologia simile: da tutti i club del mondo i migliori giocatori della
stessa nazionalità si uniscono per formare una squadra “d’unità nazionale”.
Fino a Maggio sguardi velenosi, gomitate ed insulti (fra De rossi e Candreva,
fra Barzagli e Insigne, fra De Sciglio e Bernardeschi etc) ma quando si indossa
la maglia azzurra viene sospesa la “lotta intestina” di hobbesiana memoria,
finiscono le conflittualità fra giocatori di club diversi perché c’è un
“nemico” contro cui ci si unisce: una Nazionale avversaria. Il conflitto non
finisce, viene semplicemente spostato dall’interno all’esterno. Attorno a
questa Nazionale si unisce tutto un popolo, le diverse fedi calcistiche vengono
sublimate in un’unica fede: quella negli undici azzurri.
Pasolini in un’intervista diceva questo: “Il calcio è
l'ultima rappresentazione sacra del nostro tempo. È rito nel fondo, anche se è
evasione. Mentre altre rappresentazioni sacre, persino la messa, sono in
declino, il calcio è l'unica rimastaci. Il calcio è lo spettacolo che ha
sostituito il teatro”. Noi però vorremmo aggiungere che oltre ad essere
l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo, il calcio è anche e
soprattutto fondamento coesivo di unità popolare. Il rito di cui parla Pasolini
non è privato, individuale, moderno insomma; il rito-calcio viene consumato in
piazza, allo stadio o in un pub con gli amici, la fruizione privata-individuale
è rarissima: il calcio è un rituale iper-popolare. I tricolori vengono esposti
ciclicamente ogni due anni (sedi istituzionali a parte), questo significa che
evidentemente quella bandiera alla maggior parte degli italiani fa pensare
prima ad una palla che corre su un prato che a sentimenti patriottici di vario
tipo.
Il calcio è grande e Pasolini è il suo Profeta.
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