martedì 7 giugno 2016

Un invito alla lettura: Le cronache di Narnia


di Vincenzo Cerulli

“Le cronache di Narnia” sono una raccolta di 7 racconti scritti fra il 1950 e il 1956 da Clive Staples Lewis. Possiamo ascriverli sotto il genere di “fiaba-favolistico” ma non dobbiamo escludere dalla catalogazione un particolare che è fondamentale e nel quale affonda le radici la superiorità che ha la storia di Narnia (a mio parere) rispetto a molte sue simili. Questo particolare sta nel fatto che ogni racconto è vivissimamente attraversato da immagini cristiane e sono proprio questi riferimenti così spontanei alla religione in cui Lewis credeva profondamente che la rendono unica nel suo genere. Prima di proseguire credo sia doveroso un chiarimento, che Lewis ebbe cura di fare, riguardo il genere fiabesco in generale. Nella postfazione alla raccolta, intitolata “Tre modi di scrivere per l’infanzia”, l’autore rivendica fermamente la sua inclinazione a preferire tal genere piuttosto che gli altri. Elegantemente (come solo un grande scrittore sa fare) si prende gioco di quelli che a tutti i costi devono dimostrare di essere adulti: “I critici che usano l’aggettivo <adulto> come un complimento anziché come un semplice termine descrittivo, non possono essere considerati adulti in prima persona. Preoccuparsi di sembrarlo, ammirare le cose dei grandi perché sono da grandi, arrossire al sospetto di passare per infantili sono i classici segni della fanciullezza e dell’adolescenza. […] Diventato uomo ho messo da parte le paure infantili, compresa quella di sembrare infantile e il desiderio di dimostrare che sono cresciuto”. Lewis continua poi in questa doverosa e nobile battaglia in difesa della fiaba in questo modo: “Ci accusano di arresto dello sviluppo perché non abbiamo perso i gusti che avevamo da ragazzi, ma l’autentico arresto non può considerarsi nel rifiuto di abbandonare un patrimonio, bensì in quello di acquisirne uno nuovo” , sono sicuro che tutti converrete perché poi continua “Oggi mi piacciono Tolstoj, Jane Austen e Trollope come le fiabe, il che è una crescita; tuttavia se avessi rinunciato alle fiabe per far posto ai romanzieri non potrei parlare di crescita ma solo di un cambiamento nei gusti. Un albero cresce perché si formano nuovi anelli, un treno che lascia una stazione per arrivare alla prossima non cresce affatto[…]”. Ci sarebbero molte altre frasi dell’autore che vorrei riportarvi ma mi sto rendendo conto che già quelle che ho lasciato qui sopra forse sono troppe, per questo vi invito sinceramente a leggere almeno la postfazione (fatto ciò, leggere Narnia sarà una naturale conseguenza). Scusatemi per questo exscursus ma credo sia obbligatorio almeno avvicinarsi a capire l’idea di “fiaba” che aveva Lewis prima di gettarsi a capofitto nell’analisi dello splendido mondo da lui creato, quello di Narnia. Più in alto ho accennato a quelle forti immagini cristiane che si susseguono per tutto l’arco narrativo dell’opera; ma ad essere più precisi non sono solo immagini, sono la vera e propria colonna vertebrale dell’intero universo narniano, la sua unica condizione d’essere. Lewis non scrisse i libri nell’ordine in cui sono poi stati disposti dagli editori, giunto al terzo libro credeva di aver dato sfogo a tutta la sua indole di “subcreatore” (J.R.R.Tolkien “On Fairy Stories”, in Essays Presented to Charles Williams – 1947) ma così non fu. Decise poi infatti, grazie a Dio, di approfondire l’universo che in realtà aveva solo abbozzato. Fu così che scrisse racconti cronologicamente precedenti, successivi e persino contemporanei all’arco narrativo della triade centrale precedentemente pubblicata. Dunque, perché parlavo di “unica condizione d’essere”? Vi basti pensare che l’immagine preminente del primo libro (ordine cronologico) “Il nipote del mago” è la genesi di Narnia. Parlo di genesi perché non è una semplice creazione, i rimandi a quella biblica sono chiari, nitidi e di incommensurabile bellezza. Se avete sentito parlare di Narnia avrete di certo sentito parlare di Aslan il leone mitico “figlio dell’imperatore d’Oltremare”. Aslan è Dio, l’Onnipotente che, ruggendo, intona una melodia struggente e sublime, che ci immerge in una nostalgia senza tempo proprio perché posizionata all’alba dei tempi. Narnia nasce dal ruggito di Aslan, i suoi animali parlanti, i suoi animali muti, i fiumi, le montagne, i mari, persino la luce del giorno, tutto nasce dalla forza della melodia di Aslan. Ma Aslan è anche Cristo, e come Cristo si immola per una colpa che non ha. Si fa sacrificare dalla Strega Bianca sulla Tavola di Pietra per poi risorgere all’alba del giorno dopo e risorge perché: “[…] quando al posto di un traditore viene immolata una vittima innocente e volontaria, la Tavola di Pietra si spezza e al sorgere del sole la morte stessa torna indietro”. Questo dice Aslan, una volta risorto, a Lucy e Susan. Aslan è anche agnello. Alla fine dell’ultimo racconto della trilogia centrale i protagonisti, giunti ai confini del mondo, si trovano di fronte un agnello bianchissimo, il cui candore è accecante. Lucy al Suo cospetto dirà: “Per favore agnello, è questa la strada per il regno di Aslan?” e l’agnello gli rispose “Non per voi, troverete la strada per il regno di Aslan nel vostro mondo”. Così Edmund sbalordito gli chiese se anche nel loro mondo ci fosse una strada che porti ad Aslan e l’agnello rispose: “In ogni mondo esiste una strada che conduce al mio regno”. L’agnello poi si tramuta in Aslan sotto gli occhi increduli dei ragazzi a cui poi dirà che devono imparare a riconoscerlo anche nel loro mondo. Aslan-Dio quindi trascende le normali realtà spazio-temporali, alle quali noi siamo incatenati, per trasmettere il suo messaggio di salvezza. La salvezza però, come ci insegna la Bibbia, non spetta a tutti e così Lewis nell’ultimo libro “L’ultima battaglia” illustra anche ai più piccoli come al tempo dell’Apocalisse saremo tutti tenuti a render conto del nostro operato nella vita terrena, quella che Aslan chiamerà il “sogno” o “Terra delle ombre”. Nella descrizione che ci farà poi Lewis della vita dopo l’apocalisse c’è un forte influsso neoplatonico, e questo ce lo spiegherà bene Diggory, protagonista de “Il nipote del mago” con queste parole rivolte a Peter, il Re Supremo: “[…] Ma non era la vera Narnia: aveva un inizio e una fine, era l’ombra o la copia della Narnia autentica, che invece esiste ed esisterà per sempre”. Ci sono molte altre figure che meriterebbero di essere trasposte fra queste righe ma se continuassi toglierei qualcosa al piacere della vostra lettura. Un’ultima però ci tengo a riportarla, è quella di Emeth, un guerriero di Calormen (un paese più volte in guerra con Narnia). Emeth non crede in Aslan, il suo popolo venera un Dio diverso da quello dei narniani, un Dio oltre lo sconfinato deserto che separa le terre di Archen da Tashbaan, questo Dio si chiama Tash. Emeth dirà agli altri ragazzi protagonisti della storia : ”[…] Da quando ero bambino mi considero un devoto servitore di Tash e il mio più grande desiderio è stato conoscerlo di persona. Il nome di Aslan, invece, mi è sempre stato odioso”. Emeth avrà poi la fortuna di incontrare Aslan invece; e Questo gli dirà: “ Figlio, tutto quello che hai fatto per Tash lo hai fatto per me”. Non entro nei particolari della vicenda perché l’incontro fra Aslan ed Emeth è uno dei più lirici dell’intera opera e potrei rovinarlo completamente cercando di riportarlo qui; resta il fatto però che è quanto mai attuale. Lewis, che mai avrebbe osato immaginare la situazione socio-politica attuale, ci ha lasciato anche questo monito mai tanto urgente quanto oggi, quello di evitare lo scontro di civiltà (mascherandolo, peraltro, come scontro di religioni). Questa lettura porta noi italiani a confrontarci con una realtà che la maggior parte di noi dopo il catechismo da per scontata: il cristianesimo. Su di me in qualche modo questo confronto sta operando e continuerà ad operare, spero con tutto il cuore che sarà così anche per chi, fra di voi, lo leggerà. Ora vi lascio, nella speranza che qualcuno fra di voi ha già preso a cuore la storia di Narnia, con un’ultima frase di Lewis che seppellisce definitivamente la barbara battaglia contro il genere della favola: “ Sarei tentato di stabilire la regola in base alla quale una storia per bambini che piaccia solo ai bambini non sia un granché: quelle veramente affascinanti durano. Detta in altri termini, un valzer che ci piace solo mentre lo balliamo non è un bel valzer”.

(Articolo pubblicato originariamente sul N°1 della rivista "La Voce del Padrone")

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