venerdì 24 giugno 2016

Insostenibilità dell'uguaglianza in Nietzsche


di Vincenzo Cerulli

Elaborato della tesina per un esame di laurea triennale sullo Zarathustra di Friedrich Nietzsche.

<<Perché così parla a me la giustizia: “gli uomini non sono eguali”.>> (Così parlò Zarathustra – Adelphi pag.113)

Questa frase è pronunciata da Zarathustra nel capitolo ‘delle tarantole’ ed al suo interno vi è concentrata buona parte del pensiero politico di Friedrich Nietzsche. Per il filosofo di Rocken la vita, in quanto volontà di potenza, è continuo e perenne auto-superamento di se stessa, gerarchia, è conflitto e guerra, diseguaglianza, differenza ed elevazione: per questo non accetta che venga limitata in forme prestabilite e già sempre fissate. La figura della tarantola metaforicamente rappresenta il tipo politico del progressista, figlio dell’epoca dei “lumi”, fedele nel progresso dell’umanità viene descritta come affascinata e promotrice della volontà di uguaglianza, che per Nietzsche è la suprema realizzazione del cristianesimo di derivazione paolina. Paolo di Tarso infatti con la rivolta degli schiavi ha ribaltato l’impero romano, il più grande impero che gli uomini abbiano mai conosciuto. La volontà di uguaglianza è lotta contro la potenza, lotta contro la vita, la volontà di essere tutti uguali deriva dal sentimento di vendetta e gelosia nei confronti del più forte, del ‘signore’: per questo il cristianesimo di Paolo è l’ideologia fondamentale del nichilismo. Alla morte di Cristo i suoi discepoli, guidati da Paolo, hanno negato quello che il profeta aveva predicato in vita: in primo luogo il concetto di “offrire l’altra guancia”. I cristiani alla morte della loro guida sono caduti nel risentimento, hanno provato odio e desiderato vendetta contro la figura del ‘signore’ romano, in questo modo hanno fatto crollare un impero, fattisi portavoce dell’uguaglianza planetaria hanno colpito a morte chi non accettava la loro volontà (l’impero pagano prima e gli eretici pagani dopo). Qui sta il vulnus degli ‘ideali egualitari’: Nietzsche critica proprio il fatto che chi li professa nasconda la propria volontà di comandare dietro una fumosa giustizia oggettiva. <<Se il sofferente, l’oppresso perdesse la fede di avere il diritto di disprezzare la volontà di potenza, entrerebbe nello stadio della più nera disperazione. Ciò avverrebbe se questo carattere fosse essenziale alla vita, se risultasse che anche in quella “volontà di morale” è camuffata solo questa “volontà di potenza”, che anche quell’odio e quel disprezzo è ancora una volontà di potenza. L’oppresso capirebbe di stare con l’oppressore ‘sullo stesso piano’ e di non avere un ‘diritto migliore’, un ‘rango superiore’ rispetto all’altro.>> (KSA 12, OFN VIII, I) Questa “cattiva coscienza”, o ipocrisia di fondo, che troviamo nella volontà di uguaglianza (che altro non è che volontà di potenza camuffata) viene descritta ancor meglio da Nietzsche in un passo in cui delinea una dialettica simile a quella servo-padrone in cui l’influenza di Hegel è palese: <<Ogni volta che ho trovato un essere vivente, ho anche trovato volontà di potenza; e anche nella volontà di colui che serve ho trovato la volontà di essere padrone. Il debole è indotto dalla sua volontà a servire il forte, volendo egli dominare su ciò che è ancora più debole: a questo piacere, però, non sa rinunciare. E come il piccolo si dà al grande, per avere diletto e potenza sull’ancor più piccolo: così anche ciò che è più grande dà se stesso e, per amore della potenza, mette a repentaglio - la vita>> (Così parlò Zarathustra pag.130,131 Della vittoria su se stessi). Con Nietzsche allora ci chiediamo: <<è giusto che il servo valga quanto il padrone, è giusto che “chi non ha rischiato la propria vita”(Hegel) abbia tanto potere di incidere sulla realtà quanto chi ha rischiato tutto?>>. La risposta di Nietzsche è assolutamente negativa e la possiamo in parte scorgere in questo passo: <<Perché gli uomini non sono eguali: così parla la giustizia. E a loro (qui con particolare riferimento ai ‘dotti’) non dovrebbe essere lecito volere ciò che io voglio>>.(Così parlò Zarathustra pag.145 Dei dotti) Qui il filosofo è chiarissimo, si delinea una gerarchia netta fra chi serve e chi comanda ed il primo non ha “diritto a volere” quanto il secondo.

 La volontà di uguaglianza si manifesta politicamente attraverso la democratizzazione di ogni spazio della vita associata; per Zarathustra però questa volontà di uguaglianza non è altro che la massima realizzazione del nichilismo ed in quanto tale negazione della vita.  Per Nietzsche una società, un’epoca più in generale, si può definire ‘sana’ ed in forze solo se permane quella gerarchia che da sempre contraddistingue la storia degli uomini. L’impero romano è stato grande proprio perché comandato da ‘signori’ e non da servi, o da “servi eletti”, scelti dal popolo. Nietzsche troverà questa ‘forza’, questa ‘salute’, questa ‘postura eroica’ nei confronti della vita anche nel Rinascimento italiano: <<Le epoche forti, le culture nobili vedono qualcosa di spregevole nella compassione, nell’amore del prossimo, nella mancanza di sé e di sentimento di sé. – Le epoche sono da misurarsi secondo le loro ‘forze positive’ – e così ne risulta che quell’epoca così prodiga e fatale del Rinascimento fu l’ultima grande epoca, e noi, noi moderni con la nostra ansiosa sollecitudine verso noi stessi e il nostro amore del prossimo, con le nostre virtù del lavoro, della modestia, della legalità, della scientificità – accumulatori, economici, macchinali – siamo un’epoca ‘debole’… Le nostre virtù sono condizionate, sono ‘provocate’ dalla nostra debolezza.>>(GD Scorribande di un inattuale 37) All’origine della volontà di uguaglianza c’è l’invidia verso chi possiede volontà di potenza: per questo la morale degli schiavi, la morale cristiana, è giudicata da Nietzsche come una morale del ‘ressentiment’, una morale contro-natura. <<Nell’imporre un unico standard e un’unica condotta per tutti, nel trascurare la distinzione e la differenza – soprattutto in senso gerarchico – “la morale come contro-natura, cioè quasi ogni morale finora insegnata, venerata e predicata, si rivolge al contrario contro gli istinti della vita, – essa è una condanna ora segreta, ora rumorosa e sfacciata di questi istinti”(GD Morale come contro-natura 4). E’ in realtà immorale dire: “Quel che è giusto per uno deve essere giusto per l’altro”(JGB 221)>>(Chiara Piazzesi – Nietzsche pag.151). Dunque la critica raggiunge un senso ontologico nel momento in cui democratizzazione ed uguaglianza, passando per il cristianesimo, vengono ricondotte perfettamente al nichilismo.

Alla figura della tarantola Nietzsche oppone in maniera speculare la figura della “scimmia di Zarathustra” nel capitolo ‘del passare oltre’. Questo “pazzo furioso” infatti è la rappresentazione poetica della figura del reazionario. La “scimmia” ha in comune con Zarathustra l’insofferenza verso la modernità, il senso di inadeguatezza esistenziale verso la propria epoca; le loro proposte sono però opposte. La scimmia vuole “tornare indietro”, sente la mancanza dei vecchi valori, della metafisica, della figura rasserenatrice di Dio e per questo tenta una sorta di “restaurazione”; Zarathustra invece vuole “passare oltre” la modernità attraverso la creazione di valori nuovi. I suoi modi e le sue pose sono grottesche, i suoi discorsi sono brutte copie di quelli di Zarathustra, la sua vita è una continua riesumazione di valori perduti per sempre. Se assumiamo che “Dio è morto” la messa, il rito eucaristico, altro non è che farsa, messa in scena: ecco, così è la vita della “scimmia”, una farsa. Prendendo in prestito l’immagine delle “tre metamorfosi” potremmo anche dire che la “scimmia”, dopo aver assistito alla vittoria del leone sul cammello-drago, senta una vertigine profondissima, un horror vacui tremendo ed insopportabile nel vedersi sola come “signore nel deserto”. Le sue spalle non sopportano il peso di quella responsabilità destinale a cui è chiamata a rispondere: tra “le vecchie tavole e nuove” vede il nulla e non ha il coraggio di superarlo con la creazione di valori nuovi.

Qui c’è probabilmente una differenza ontologica fra l’agire della “scimmia” e quello della tarantola e Nietzsche sembra addurre un peso più grave a quello di quest’ultima. Secondo le “tarantole” la modernità va ancor di più accelerata; ma non superata nel modo di Nietzsche, non con un nuovo creare, non con l’innocenza tragica a cui sarà destinato il fanciullo, bensì con l’uguaglianza planetaria. Annullando tutte le differenze, le diversità, le gerarchie, non fanno altro che imporre una gerarchia diversa, quella secondo la quale il forte deve essere dominato dai deboli e deve essere anche punito per la sua potenza.  Così parlano le tarantole dalle loro tane: “Noi vogliamo esercitare la vendetta e l’oltraggio contro tutti coloro che non sono eguali a noi”(Così parlò Zarathustra pag.111).  Nietzsche identifica la volontà di eguaglianza con il nichilismo, ci dice che proprio presso le “tarantole”, fra gli ideali egualitari, ha trovato dimora: “Vogliono far male a quelli che ora hanno la potenza: infatti, presso coloro trova miglior domicilio la predica della morte”(Ibidem pag.113). Da qui deduciamo la gravità ontologica maggiore delle tarantole; di contro le “scimmie” sono talmente spaesate nel deserto di valori da iniziare a fingere che Dio non sia morto, (una sorta di psicosi?) non accettano la fine di un’epoca e quindi non ne inaugurano una nuova. Riprendendo l’immagine delle “tre metamorfosi” sembra quasi che le tarantole si trovino perfettamente a loro agio nel deserto di valori, per loro il processo di metamorfosi dello spirito si dovrebbe fermare al leone, non hanno bisogno di valori nuovi, non viene prospettato un fanciullo futuro per “redimere” la modernità. La loro libertà si esaurisce nell’essere “liberi da”, morto il drago non si chiedono “per cosa” sono libere adesso. Probabilmente fanno corrispondere “valori nuovi” unicamente a “regole nuove” e loro non ne vogliono sentir parlare, nemmeno se sono chiamati essi stessi a scriverle. Ecco uno “schizzo” dell’epoca moderna, in cui la “libertà” priva di responsabilità viene ridotta a liberalità, la liberazione alla liberalizzazione.
I cuori di tarantola hanno scambiato la possibilità della libertà più grande, quella cioè di darsi valori nuovi autonomamente, con la misera sregolatezza offerta dal non darsi nessun valore. Qui si compie una trasvalutazione dei valori, il “tu devi” del cammello diventa “io voglio” ma questo “io voglio” non si decide sull’oggetto del proprio volere e così la potenziale carica liberatrice della volontà del leone si auto-estingue nell’atto del consumo sfrenato e sregolato, la volontà di potenza si riduce ad obbedienza all’istinto. “Creo dunque sono” direbbe il fanciullino annunciato da Zarathustra; “consumo dunque sono” sibilano le tarantole in ogni dove, ecco la loro libertà, libertà di consumare.

Ora viene spontaneo notare che nella nostra epoca in maggioranza assoluta sono le tarantole, la fede nel progresso dell’umanità è incrollabile, persino dopo il suicidio di intere generazioni in due guerre mondiali, persino dopo la bomba atomica si continua ciecamente a credere in due parole chiave: “crescita e progresso”. Si continua a ripetere che la “tecnica” è imparziale, oggettiva, e che sta all’uomo forgiarla in base ad ideali di giustizia ed uguaglianza. Si ignora la critica di Heidegger riguardo l’impossibilità dell’imparzialità della tecnica, quindi si arriva presto a dire che la bomba atomica non era una male “in sé”, che c’è sicuramente un modo “umano” per utilizzarla.

 Qui sarebbe interessante mettere in relazione la critica che Carl Schmitt opera sul concetto di “umanità” con quella di Nietzsche su quello di “uguaglianza” , i due concetti vengono spesso utilizzati assieme per giustificare oggettivamente interessi molto soggettivi; purtroppo non si dispone dello spazio necessario.

 Ricordiamo invece brevemente il nesso fra “tecnica” ed “uguaglianza”. “Dio creò gli uomini diversi, Samuel Colt li rese uguali”. Questa celebre frase segna il passaggio di un’epoca: questo passaggio non riguarda unicamente il campo bellico. Avviene un rovesciamento talmente importante da arrivare a toccare qualsiasi spazio della vita associata. Il passaggio di cui parlo è quello per cui non conta più la preparazione militare, l’allenamento, la forza, il coraggio o lo spirito necessario per un combattimento corpo a corpo; tutto si riduce alla velocità di esecuzione, chi arriva primo al grilletto vince (la situazione è portata oggi all’estremo con i droni per i bombardamenti comandati a migliaia di chilometri di distanza). Gli uomini vengono tutti portati allo stesso livello: il “coraggio”, cifra di distinzione che permette a  Zarathustra di scrollarsi di dosso il “nano” (Ibidem pag.183 La visione e l’enigma), è costretto a comparire sempre più raramente in una società perfettamente meccanizzata. Da quella grande nazione che chiamiamo USA è partita, ancora prima che con la rivoluzione francese, la “riscossa per l’uguaglianza”: questo paese viene difatti preso a modello come esempio di democrazia e tutto quello che succede lì (in campo economico, sociale, politico etc), in un breve periodo si ripresenta anche qui nel vecchio continente. Sempre negli USA nascono quei movimenti che Alain De Benoist nomina come portatori di un “femminismo egualitario”, movimenti che ancor oggi foraggiano la “gender theory”, una teoria “che non esiste”. Qui vi facciamo riferimento solo per far notare ancora di più come la direzione verso cui sta precipitosamente correndo la nostra società è quella dell’uguaglianza totale, l’uguaglianza figlia dell’assenza di differenze e discrepanze: “A differenza del femminismo identitario o differenzialista, che pone l’accento sulla differenza, la promozione o la riscoperta del femminile, il femminismo egualitario sostiene che sarà possibile raggiungere una vera parità fra uomini e donne solo quando nulla sarà più in grado di distinguerli tra loro” (Alain De Benoist – Oltre l’uomo e la donna Circolo Proudhon Edizioni, pag.6). Non possiamo esimerci dal cercare di trovare i punti di raccordo fra le parole del pensatore francese e quelle di Nietzsche. Quella di De Benoist è una bieca reazione o una seria critica nel solco del filosofo della volontà di potenza? Così Nietzsche riguardo la ‘vita’: “E poiché ha bisogno di altezza, ha bisogno anche dei gradini e della contraddizione tra i gradini e coloro che salgono! Salire vuole la vita e salendo superare se stessa”(Così parlò Zarathustra pag.113). Come può esserci ‘differenza’ in una società in cui le categorie maschio/femmina, uomo/donna vengono meno? Viene qui prospettata una società di individui neutri ed eguali, è forse queste la naturale evoluzione dell’antropologia cristiana fondata da San Paolo, è forse questo un passo avanti verso l’umanità unificata come “un solo gregge” del Vangelo di Giovanni? Chiudiamo questa parentesi con le ultime parole del pamphlet prima citato: “E’ il sogno di una postmodernità post-sessuale dove, non essendo riusciti a creare una società senza classi ci si accontenterà di una società senza sessi. Una società dove la ‘liberazione del desiderio’ non consiste nella volontà di liberare il desiderio, bensì nel dovere di liberarsene. Un sogno di indistinzione, un sogno di morte”. (Ibidem pag.33) Un ‘sogno di morte’, forse così Nietzsche vedeva i sogni di uguaglianza che già nel suo secolo iniziavano a farsi strada attraverso le teorie socialiste. Chiara Piazzesi sullo stesso argomento: <<… Nietzsche riconosce le idee democratiche, il socialismo e perfino il femminismo come alcune delle più forti tendenze “uniformatrici” della modernità, rivolte ad eliminare le differenze in quanto disparità, a livellare la superiorità, ad “ammansire” ogni personalità che non sia moralmente e socialmente addomesticata.>>(Carocci Editore – Nietzsche pag.148)  Quindi ora ci chiediamo: prospettiva estrema quella di Nietzsche o profezia avveratasi? Credendo di costruire una società giusta ne stiamo disegnando una senza gradini e senza differenza fra chi li dovrebbe scalare; per questo per salire in alto ormai non possiamo far altro che auto-superarci, “salire sul nostro capo”. “E se ormai ti sono venute a mancare tutte le scale, bisogna che tu sappia salire sul tuo capo: come potresti altrimenti salire in alto?” (Così parlò Zarathustra pag.178 Il viandante)


Una società “senza gradini” potremmo “abbozzarla” qui anche in un altro senso: una società in cui chi 200 anni fa non sarebbe sopravvissuto per malformazioni genetiche, deficit alla nascita o semplici malattie, oggi vive tranquillamente grazie a piccole operazioni o semplici antibiotici. “Ai brutti tempi andati di rado sopravviveva un bambino che avesse qualche spiccato, o lieve, difetto ereditario. Oggi invece, grazie all'igiene, alla farmacologia moderna e alla coscienza sociale, quasi tutti i bambini venuti al mondo giungono a maturità e si moltiplicano. Date le condizioni oggi dominanti, ogni progresso della medicina sarà frustrato da un corrispondente aumento del tasso di sopravvivenza degli individui che dalla nascita portano con sé una qualche insufficienza genetica.... Una società siffatta fino a quando potrà conservare le sue tradizioni di libertà individuale e di governo democratico? Fra cinquanta o cento anni i nostri bambini daranno una riposta a questa domanda.” (Aldous Huxley – Ritorno al mondo nuovo, pag.247) Non si vuole in nessun modo dare un’interpretazione biologistica del filosofo tedesco ma questa riflessione di Huxley ci pone di fronte degli interrogativi capitali: se ciò accade dal punto di vista biologico dal punto di vista “morale-filosofico” avviene lo stesso? Il ‘malato’ o ‘debole’ nello Zarathustra non è malato o debole fisicamente (geneticamente), questa figura è descritta nel capitolo ‘Dei predicatori di morte’ (pag.46.48). “Basta che incontrino un malato o un vegliardo o un cadavere, perché dicano <<la vita è confutata!>>. Ma soltanto loro sono confutati e il loro occhio, che dell’esistenza vede solo quell’un volto”(Ibidem pag.46) I ‘malati’ sono coloro che dicono no alla vita, sono quelli che predicano la morte in ogni dove ma non compiono mai l’estremo gesto verso se stessi, sono anche quelli che non sopportano (tragen) il ‘pensiero più abissale’, l’eterno ritorno. Qui si definisce un’altra gerarchia, sta “sopra” chi sopporta quel peso, il ‘sano’, il ‘forte’ e sta “sotto” chi si dispera e “si rovescia a terra digrignando i denti” (Gaia Scienza frammento 341). In questa prospettiva l’ultimo uomo è ‘malato’, soffre l’eterno ritorno, non lo sopporta e subisce la ‘dècadence’ senza riuscire a superare il nichilismo; l’oltreuomo è invece il ‘forte’ che grazie al coraggio che mostra nel sopportare “il peso più grande” si scrolla  di dosso il ‘nano’ e supera il nichilismo, lo sopporta, lo sostiene.

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