mercoledì 23 marzo 2016

Servi o sovrani: tertium non datur


di Simone Mela

Come molti di voi sapranno, dopo la seconda deliberazione alla Camera in conformità all’articolo 138 della Costituzione, nell’autunno di quest’anno la riforma costituzionale sarà sottoposta a referendum confermativo. C’è da fare una premessa doverosa: coloro che stanno tentando di riformare la Costituzione si trovano in parlamento grazie a una legge elettorale (il porcellum) dichiarata illegittima dalla Corte Costituzionale con la sentenza n.1/2014 a causa dell’assenza delle preferenze e di un premio di maggioranza senza una soglia minima di voti. Il nucleo della riforma prevede il passaggio da un bicameralismo paritario a un bicameralismo imperfetto. Il Senato non scomparirà, ci sarà e come. Invece che da 315 il nuovo Senato (il cosiddetto Senato delle Autonomie) sarà composto da 100 senatori, 95 dei quali saranno rappresentanti delle istituzioni territoriali (74 consiglieri regionali e 21 sindaci) e 5 senatori nominati dal presidente della Repubblica con un mandato di sette anni. Non saranno, quindi, più eletti dal popolo ma dai consigli regionali. Ad esercitare il potere legislativo, votare e revocare la fiducia al governo sarà esclusivamente la Camera dei deputati. L’organo senatoriale avrà voce in capitolo in materia costituzionale e, udite udite, potrà partecipare, insieme alla Camera dei deputati, all’elezione del presidente della Repubblica. Potrà nominare due dei cinque giudici della Corte costituzionale, mentre gli altri tre sono di competenza della Camera. Tra le altre cose la revisione costituzionale alza anche il numero di sottoscrizioni necessarie per le proposte di legge di iniziativa popolare: dalle cinquantamila firme si passa a centocinquantamila segnando un netto peggioramento per il popolo affinché eserciti iniziativa di legge. Tornando all’elezione del Presidente della Repubblica, questo verrà eletto dalla settima votazione in poi con la maggioranza qualificata dei 3/5 dei votanti. Il tutto se unito con la legge elettorale dell’Italicum fa sì che quei 3/5 siano in sostanza la maggioranza assoluta parlamentare. L’italicum, infatti, è una legge elettorale a forte vocazione maggioritaria in quanto prevede che la lista, e non la coalizione, avente il 40% dei consensi possa aggiudicarsi un premio di maggioranza pari al 55 % dei seggi (340 su 630). Se nessuna lista riuscisse a varcare la soglia del 40% si andrà al ballottaggio fra le due liste più votate. A seguito del ballottaggio la lista che ottiene più voti, indipendentemente dal risultato in termini percentuali si aggiudica il premio, ossia 340 seggi. Capite bene che la maggioranza parlamentare sarà non una maggioranza di coalizione ma di lista alla quale sarà legata la figura del Presidente del Consiglio sancendo di fatto, in contrasto con i principi della Costituzione, la netta supremazia dell’esecutivo sul Parlamento. Ora bisogna riflettere un attimo sul contesto storico in cui queste riforme mettono piede. L’Italia non è più uno Stato sovrano, si potrebbe disquisire a lungo sul perché ma fatto sta che è così. A mio modo di vedere tutto questo pasticcio c’entra ben poco con i tagli ai costi della politica e con la velocizzazione dell’iter legislativo. Queste riforme fanno parte di un più ampio progetto di smantellamento della democrazia e quindi anche della nostra sovranità targato UE. Un parlamento di nominati, una maggioranza assoluta rappresentata da una sola lista, un Presidente del Consiglio legato a quella maggioranza e infine un capo dello Stato che è espressione di quella maggioranza senza nessun contrappeso od oppsozione che possa avere un minimo di efficacia sono degli ottimi ingredienti affinché passi attraverso delle ratifiche tutto ciò che si decide a Bruxelles esautorando del tutto la democrazia e la sovranità popolare. Ecco perché votare NO a questo referendum è un atto di resistenza assolutamente necessario. Non si tratta di essere “conservatori” e di non andare avanti (cosa che i media cercheranno di far passare da qui al giorno prima del referndum) ma di fare in modo che non si dia vita a una pericolosa monocrazia che faccia gli interessi di quella tecnocrazia ancor più pericolosa e criminale, disinteressandosi del popolo.

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