lunedì 28 marzo 2016

Siria, armi chimiche e il doppio standard dell'Occidente


Sono passati cinque anni dallo scoppio della guerra civile in Siria e lo scenario che ci è stato presentato in questo lasso di tempo è sempre stato alimentato dalla smania di un Occidente ansioso di accelerare il processo del cambio di regime al fine di liberare il popolo siriano dal dispotismo dell'"orrendo dittatore" Bashar al-Assad. Chi altro poteva autoproclamarsi eroico capo di questa nobile impresa verso l'abbattimento del male, proponendosi di esportare libertà e democrazia nel resto del mondo, se non proprio gli Stati Uniti d'America? Dunque, la ormai classica trama di questo "nuovo" film hollywoodiano era scritta, i media dovevano solamente interpretarla con una performance convincente ed una buona retorica.

di Horatiu Chituc


La retorica di cui stiamo parlando è quella del "bene contro il male", cioè, la stessa usata in modo clamoroso nel 2003 con l'inizio della guerra in Iraq che, un po' per gli interessi economici nella regione, un po' per un'incompetenza allarmante dal punto di vista amministrativo, fu chiaramente smascherata e scarnificata dallo strato molto spesso di falsità e bugie quando si ebbe di fronte la realtà dei disastri sociali e della totale anarchia provocati dall'intervento militaristico statunitense che voleva assolutamente un regime change.
Ma non c'è bisogno di esempi che vadano oltre gli eventi accaduti in Siria per dimostrare come le intenzioni dell'Occidente non derivino da una pura e ingenua volontà di promuovere nobili valori come la libertà e la democrazia lì dove invece regna il male e l'oscurità. E questo lo sappiamo con precisione perché già nel lontano 2006 l'organizzazione non-profit Wikileaks, fondata da Julian Assange, è riuscita a mettere mano sulle comunicazioni private tra l'ambasciatore americano a Damasco William V. Roebuck e la Casa Bianca in cui vengono discussi i punti deboli di Assad su cui poter progettare un piano machiavellico per destabilizzare e generare paranoia nel governo siriano. E tutto ciò avvenne cinque anni prima dell'ondata di rivoluzioni che caratterizzarono la Primavera Araba, momento in cui il governo siriano oppose una resistenza ferrea dando luogo alla sanguinosa guerra civile che continua ancora oggi.
Ci sono quindi buoni motivi per sospettare che le prime proteste in Siria siano state il risultato di un'orchestrazione subdola portata avanti da esterni che avevano come interesse la caduta del governo di Assad come afferma anche la parlamentare siriana di religione cristiana Maria Saadeh che oltre a denunciare il fatto che i "rivoluzionari" lasciavano i loro posti di lavoro perché erano pagati di più (non si sa bene da chi) per partecipare alle proteste contro il regime, osa anche criticare la terminologia dei media occidentali che identificano la Siria con una dittatura.
Ora, per essere precisi, Bashar al-Assad è un capo di stato che, dopo trent'anni di governo del padre Hafiz al-Assad, ha ereditato la sua carica in modo anticostituzionale, dato che era troppo giovane per diventare presidente secondo la legge siriana, e con delle elezioni (si fa per dire) in cui lui era l'unico candidato dell'unico partito Ba'th riuscendo così a prendere il potere in uno stato dove l'opposizione era messa fuorilegge. Già facendo queste considerazioni ci si rende conto che è un po' difficile definire Bashar al-Assad un capo di stato democratico che rispetta la legge del proprio stato e, anzi, secondo gli standard occidentali è pure giustificata la definizione di dittatore tenendo anche conto del suo lungo incarico durato quasi sedici anni. Ma quello di cui parla Maria Saadeh è da considerare più che altro come una percezione che hanno i siriani i quali, secondo le sue parole, non ritengono che il proprio paese sia un regime dittatoriale.
Gli occidentali hanno invece percezioni diverse e spesso distorte dal giornalismo propagandistico dei media. Infatti, durante questi cinque anni in cui centinaia di migliaia di persone hanno perso la vita, c'è un evento particolarmente controverso e spesso esposto con superficialità mediatica che ha rappresentato un punto cruciale nell'evoluzione della guerra siriana: si tratta ovviamente del presunto uso di armi chimiche da parte del governo siriano sui propri cittadini.
Gli attacchi chimici che accaddero nel 2013 furono molteplici: il primo avvenne il 19 marzo a Kahn al-Asal nella città di Aleppo in cui morirono 10 civili e 16 militari al servizio del governo; il secondo ebbe luogo presumibilmente tra il 12 e il 14 aprile a Jobar, Damasco, ma si trattò più che altro di un accusa infondata da parte di alcuni giornalisti e dell'intelligence francesi che non ebbe nessun riscontro nelle investigazioni dell'ONU; e, infine, il più famoso e distruttivo attacco fu quello di Guta a Damasco del 21 agosto in cui morirono tra le 281 e le 1.729 persone.
Le reazioni a quest'ultima devastante tragedia si polarizzarono subito in due fazioni: da una parte gli Stati Uniti e i loro alleati additavano frettolosamente il governo siriano come responsabile indiscutibile dell'accaduto il quale andava punito a suon di bombardamenti per aver oltrepassato la "linea rossa" tracciata da Obama; dall'altra Assad respingeva le accuse supportato dalla Russia di Putin che invitava alla calma e suggeriva di aspettare i risultati di un'investigazione sul campo prima di giungere a delle conclusioni.
Perciò il Segretario Generale dell'ONU Ban Ki-moon fornì una squadra che guidasse l'investigazione sul luogo dell'accaduto e, sebbene il resoconto dell'operazione risultasse quasi del tutto neutrale, una magistrata svizzera di nome Carla Del Ponte che faceva parte del team investigativo dichiarò più volte che le prove rinvenute tendevano a colpevolizzare di più i ribelli dell'opposizione che il governo siriano. Le sue dichiarazioni però furono largamente e ingiustamente ignorate dai media occidentali che non sembravano aver alcun problema con il fatto che nella primavera del 2013 erano stati arrestati dalle autorità turche alcuni membri di al-Nusra (ribelli siriani affiliati ad al-Qaeda) per il possesso del medesimo gas nervino sarin che venne usato negli attacchi chimici. E un altro fatto su cui si discute poco è che nell'attacco di Khan al-Asal vennero impiegati razzi fabbricati in casa e non quelli standard usati dall'esercito siriano.


Ma c'era da aspettarselo che piccoli incidenti di questo genere venissero ignorati da un Occidente che addirittura sponsorizza questa opposizione composta da gruppi terroristici che, con molta probabilità, sono responsabili di orribili crimini di guerra.
Ma possono bastare solo queste considerazioni per provare l'innocenza di Assad? Certo che no. Però, tutto ciò che abbiamo detto fino adesso mette in evidenza un altro fatto ancora più sconcertante e cioè: l'esistenza di un doppio standard nella politica estera dei paesi occidentali che, con le sue azioni, sembra dirci: se lo fa Assad, dobbiamo distruggerlo; se lo fanno i ribelli, beh...allora possiamo pure chiudere un occhio. I crimini e le vite umane perse non vengono giudicate più con lo stesso criterio e non hanno più un valore oggettivo, perché ciò che conta ormai è da chi sono compiuti tali atti e non il loro valore intrinseco: quindi, i crimini sono crimini che vanno puniti solo se è il mio avversario geopolitico ad averli commessi e le vite umane perdute le considero tali solo se queste dimostrano la brutalità del mio oppositore.
Fin qui l'implicazione del governo siriano nei diversi attacchi chimici non è ancora chiara, sebbene ci siano alcune prove in sua difesa fornite dal giornale tedesco Bild am Sonntag in un articolo dell'8 settembre del 2013. Qui vengono esposte le dichiarazioni di alcune spie dell'intelligence tedesca che riportano le intercettazioni radiofoniche in cui i comandanti dell'esercito siriano chiedevano l'autorizzazione per l'uso di armi chimiche in battaglia, richiesta ripetuta per 4 mesi e mezzo alla quale il governo di Assad non ha mai dato il permesso. Questo proverebbe che Assad non è direttamente responsabile, sebbene sia possibile che l'esercito abbia agito di testa sua.
Ma a contraddire queste prove c'è un'altra intercettazione di un ufficiale di Hezbollah e l'ambasciata iraniana a Damasco in cui viene detto che l'attacco del 21 agosto a Guta è stato ordinato dal governo.
Dunque, notiamo quanto sia infinitamente complessa la questione e che non si possa semplicemente risolvere con una o due prove o addirittura adoperando esclusivamente la logica chiedendosi: beh, che vantaggi avrebbe avuto Assad nel fare appello al suo arsenale chimico quando tale azione non avrebbe fatto altro che metterlo ancora di più a rischio?. Sebbene tale domanda vada posta, ci sono mille altre variabili e dinamiche che sfuggono alla nostra indagine. Perciò, non si può giungere ad un verdetto conclusivo.
Ciò che invece si può ritenere di aver dimostrato con certezza è che dietro le scelte apparentemente nobili e umanitarie delle grandi potenze mondiali, spesso si cela un impulso cieco ed oscuro che calpesta e sotterra la verità stessa al fine di raggiungere la soddisfazione di un potere in atto; le prove oggettive qui vengono declassate, la ragione repressa e il medesimo sistema di valori che si applica in una situazione non sembra avere rilevanza in un'altra. Cos'è questo se non un malato desiderio egemonico sotto mentite spoglie?

(Pubblicato originariamente su http://noideanoname.blogspot.it/ )

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