giovedì 24 marzo 2016

To Kill a Fictionbird, della morte narrativa


di Edoardo Rivetti

''Vi erano cose vive e cose non vive[...]. Le cose non vive rimanevano ferme nello stesso punto, le cose vive si muovevano.'' Jack London

Giocare con il destino di un uomo è un compito gravoso, poco importa che questo sia il prodotto dell'estro creativo di un artista. Uccidere Anna deve aver richiesto a Tolstoj una certa dose di apatia momentanea, la stessa che cerca Raskolnikov nell'appartamento di Ivanovna. Sicuramente poi il peso della penna-pugnale triplica quando il personaggio diventa alterego dell'autore. Ma, in definitiva, davvero si uccide un personaggio che mai ha avuto realtà corporea, trafiggendolo con un etereo pugnale in una cronaca dell'irreale? Quando davvero muoiono i personaggi?
 Tutte le forme narrative, altro non sono, Hitchcock insegna, che una finestra aperta che ci consente un' unica prospettiva verso un delimitato spazio. I figuranti che vediamo non possono entrare in contatto con noi, non possiamo che conoscerli indirettamente sempre attraverso esperienze che sono forzati a ripetere. Guardiamo l'ultimo fotogramma, leggiamo l'ultima pagina, sentiamo l'ultima battuta, e tutto è finito, i personaggi, infine, sono ''venuti a mancare'' nel senso più passivo della locuzione. Ma non a tutti è comune questo destino, alcuni personaggi rimangono lì, e vivono ancora, quella vita che non l'autore, ma lo spettatore ha donato loro.
Quando lo spettatore identifica un personaggio con un ruolo da compiere nella trama, cambiando, quindi, il proprio status da ''colui che guarda'' a ''colui che interpreta'', contestualizza appieno nel mondo irreale proposto dall'autore ciò che vede. Far completare ogni tipo di missione che è stata identificata con un personaggio, vuol dire uccidere narrativamente il personaggio stesso, compiendo il fatidico omicidio molto più oneroso nella finzione di una coltellata ben assestata, pur descritta nei minimi particolari.
 Ann Darrow. King Kong. La Bestia che ama la Bella, la storia la conosciamo tutti. Quando l'acromegalica scimmia cade dall' Empire State Building, la storia finisce, la Bella non può più essere amata dalla Bestia e Ann Darrow muore narrativamente sul colpo quando sulla pellicola appaiono le due fatali parole THE END. Funzione finita, Ann Darrow a casa, e di come trascorrerà la mezz'età sapendo di essere stata amata dal primate più grande del mondo, in fondo, non interessa a nessuno, perchè il suo ruolo è esaurito.
Antoine Doinel. I 400 colpi. Lui, ragazzo abbandonato a ciò che la sua età gli impone di fare, con una difficile storia familiare alle spalle. Quando la madre lo lascia solo a confrontarsi con la vita adulta che sta davanti a lui, la storia continua, il ragazzo fugge e sa di doversi, ancora di più, preparare a ciò che il futuro gli riserva. Arriva la fatale parola FIN. Funzione non finita, bobine che oramai girano a vuoto, ma Antoine ancora vive nella nostra mente di fruitori attivi. Dipingiamo in noi, magari anche solo con sporadiche pennellate un po' impressioniste, ciò che il futuro ha in serbo per il ragazzo; perchè il suo ruolo non è esaurito.
 Nell'arte, nulla è imposto, e l'autore non ha una visione preferenziale sulla storia che racconta. Il semplice sparire dalla ragnatela della trama, può identificare la finta-morte-corporea di qualcuno che non è mai davvero esistito, ma non implica la fine di una vita che è ontologicamente diversa dalla nostra. Il destino di tutti i personaggi è nelle nostre menti, dall'inizio alla fine o alla non fine.
 ''Chi cerca il cuore della storia nell’interstizio fra la creazione e il suo autore si sbaglia: conviene invece cercare non nel campo fra lo scritto e lo scrittore, bensì in quello che sta fra lo scritto e il lettore.'' Amos Oz

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