di Edoardo Rivetti
''Vi erano cose vive e
cose non vive[...]. Le cose non vive rimanevano ferme nello stesso punto, le
cose vive si muovevano.'' Jack London
Giocare con il destino
di un uomo è un compito gravoso, poco importa che questo sia il prodotto
dell'estro creativo di un artista. Uccidere Anna deve aver richiesto a Tolstoj
una certa dose di apatia momentanea, la stessa che cerca Raskolnikov
nell'appartamento di Ivanovna. Sicuramente poi il peso della penna-pugnale
triplica quando il personaggio diventa alterego dell'autore. Ma, in definitiva,
davvero si uccide un personaggio che mai ha avuto realtà corporea,
trafiggendolo con un etereo pugnale in una cronaca dell'irreale? Quando davvero
muoiono i personaggi?
Quando lo spettatore
identifica un personaggio con un ruolo da compiere nella trama, cambiando,
quindi, il proprio status da ''colui che guarda'' a ''colui che interpreta'',
contestualizza appieno nel mondo irreale proposto dall'autore ciò che vede. Far
completare ogni tipo di missione che è stata identificata con un personaggio,
vuol dire uccidere narrativamente il personaggio stesso, compiendo il fatidico
omicidio molto più oneroso nella finzione di una coltellata ben assestata, pur
descritta nei minimi particolari.
Antoine Doinel. I 400
colpi. Lui, ragazzo abbandonato a ciò che la sua età gli impone di fare, con
una difficile storia familiare alle spalle. Quando la madre lo lascia solo a
confrontarsi con la vita adulta che sta davanti a lui, la storia continua, il
ragazzo fugge e sa di doversi, ancora di più, preparare a ciò che il futuro gli
riserva. Arriva la fatale parola FIN. Funzione non finita, bobine che oramai
girano a vuoto, ma Antoine ancora vive nella nostra mente di fruitori attivi.
Dipingiamo in noi, magari anche solo con sporadiche pennellate un po'
impressioniste, ciò che il futuro ha in serbo per il ragazzo; perchè il suo
ruolo non è esaurito.
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