di Menno Gabel
In un periodo in cui Giovanni Gentile, tormentato da una forte depressione nervosa per l’ansia di un concorso universitario, tardava a inviargli un’ impegnativa e urgente recensione (la nota “recensione Windelband”) e gli scriveva di sperare di riuscire “lavoricchiando” a spedirgli almeno un articolo sul Laberthonnière, Benedetto Croce gli riscrive che avrebbe gradito “assai avere la recensione Laberth., anche come segno che si è rotta la jettatura”. Anche don Benedetto dunque da buon meridionale, e come tanti suoi allievi, alla jettatura anche se non vera ci credeva.
Chissà
come deve essere rimasto quando nell’estate del 1944 gli sarà in qualche modo arrivata
l’eco della notizia della morte violenta di Giacomo Lumbroso, uno storico oggi
poco noto, collaboratore di Gentile e allievo di Niccolò Rodolico e Gioacchino
Volpe.
Di
Giacomo Lumbroso è ancora utile, ed è stato anche da non molto ristampato, un’interessante
studio del 1932 sulle insorgenze antigiacobine, I moti popolari contro i
francesi alla fine del secolo XVIII (1796-1800). Lumbroso con la sua
ricerca si pone nel solco della storiografia nazionalistica dei primi decenni
del Novecento, che con Rota, Volpe e Rodolico si occupava dell’Insorgenza,
soprattutto nell’Italia Meridionale, cercando di vedere in essa, come prima
manifestazione di lotta contro la presenza straniera nella Penisola, una delle
fonti del Risorgimento.
Nel
1933 Benedetto Croce sulla Critica (n° 31) stroncò scrollando le spalle il
lavoro di Lumbroso con parole a dir poco sdegnate:
Secondo l'autore, il
Risorgimento italiano ha “origini più complesse di quanto certa critica storica
ritenesse fino ad oggi”; ed egli
non crede che si possa continuare ad affermare, come si usa, che i novatori
italiani della fine del settecento, i democratici e i giacobini italiani,
“inginocchiati dinnanzi ai vincitori, dimostrassero di avere, più dei popolani
laceri e inermi che suonarono le campane contro i francesi, uno spirito patriottico
e una coscienza italiana” (p.
193). Quei giacobini italiani zelavano la libertà politica, vale a dire un
concetto “completamente dissimile” da quello d'indipendenza nazionale, confusi
i due e sovrapposti dalla “tradizione
storica per un cumulo di circostanze contingenti” (pp. 8-9). Per di più, essi
erano teorici, astrattisti, « inadatti a qualsiasi azione politica, e sopratutto incapaci di esercitare
un’ influenza sulle masse, che non si curano dei principii e guardano ai fatti”
(p. 117).
Che cosa rispondere a sentenze come
queste, che l'autore ripete più volte e che sono il pensiero, l’unico pensiero,
del suo libro? Niente: scrollare le spalle. Si tratta di un cattivo vezzo preso
da molti ai giorni nostri - per ecolalia,
per accomodarsi ai tempi, per darsi l'aria di superatori, o quale altro
ne sia il motivo - d'
ingiuriare la libertà e gli uomini della libertà, ai quali noi italiani
dobbiamo tutto; e l'autore di questo libro (a giudicare dal cognome che porta)
deve certamente qualcosa di più di quel che debba io: perché, senza quegli uomini,
i suoi padri sarebbero rimasti ancora chiusi nei ghetti o sarebbero stati
scannati e bruciati dalle plebi sanfedistiche, com'egli stesso racconta che fu
generalmente fatto, tra il 1796 e il 1800, in tutte le parti d'Italia dove
dimoravano ebrei. Si tratta, per di più, di scarsa conoscenza e meditazione
delle leggi della storia, la quale procede sempre dall'alto al basso, dal moto
delle idee ai fatti, dalla cultura alle “masse”.
A Giacomo Lumbroso già
Croce non perdona il cattivo vezzo di quello che oggi chiamano revisionismo,
essenza da sempre del mestiere dello storico e non atteggiamento di chi si dà
arie di superatore, il vezzo di rimettere in discussione interpretazioni
non più soddisfacenti anche se protette dallo scrupolo di ingiuriare “la
libertà e gli uomini della libertà” ( l’argomento insomma per cui di
Garibaldi non si può parlar male). In più sfugge a don Benedetto un’allusione evitabile
e un po’ volgare al cognome ebraico di Lumbroso, oltretutto convertito al cattolicesimo e coniugato con una cattolica.
Forse nel 1944 qualcuno avrà informato Croce che quel
giovane collaboratore di Gentile, fascista convinto negli anni dello
squadrismo, ma sempre più deluso del fascismo diventato regime fino a doverne
subire l’assurda e incongrua politica razziale, era ironicamente morto colpito per
strada, “dall’alto al basso”, da un franco tiratore nel corso della travagliata
entrata a Firenze delle truppe angloamericane. A Croce potrebbe essere giunta
la voce che quello storico dal nome
probabilmente giudaico era appena tornato a Firenze in armi, ufficiale dello
strano esercito cobelligerante del regno del sud, per morirvi fatalmente in via
Landino, non lontano dalla Fortezza da Basso, centrato da un franco tiratore
dei disperati fascisti insorti proprio per guastare dai tetti del centro della
città l’entrata di altre truppe straniere che avrebbe voluto essere trionfale e
festosa. Forse il Lumbroso poco prima di essere fulminato si sarà sentito
finalmente un uomo della libertà e avrà forse ripensato alla giustezza di fatto
di quella pertinente cattiveria crociana sugli ebrei vincolati a stare sempre dalla
parte di quella presunta libertà. Forse in quei momenti paradossali, dopo aver
visto lo scempio dei lungarni in macerie e le ferocie della guerra civile avrà ripensato a quello
che proprio lui aveva scritto per commentare del Triennio giacobino le
stragi bestiali e le assurdità insensate della lotta tra insorti arrabbiati,
profittatori, traditori, opportunisti, illusi, ingenui, vittime casuali e pochissimi
eroi. Se non l’avesse colpito a morte dal tetto quell’uomo o quella donna resi
fanatici dai tempi, dai tradimenti e dagli opportunismi, e comunque destinati
entro poche ore a essere massacrati senza processo perfino sui gradini di Santa
Maria Novella, il professor Lumbroso avrebbe certamente avuto modo e
occasione di ripensare a quello che aveva creduto giusto scrivere giusto dodici
anni prima commentando l’esito infausto dell’insurrezione di Lugo di Romagna:
Frattanto dal Municipio Ferrarese veniva nominato
d’autorità un nuovo Consiglio Comunale che ripigliasse in mano l’
amministrazione della infelice Lugo, in preda al disordine ed all’ anarchia. I
nuovi consiglieri erano egregi ed onesti cittadini, di animo mite e di
temperate opinioni; ma il terrore dei francesi poteva tanto sull’animo loro da
indurli ad incredibili atti di servilismo. Basti per provarlo il fatto che in
quell’estate si progettò di inalzare sulla piazza principale di Lugo un
monumento commemorativo con sopra incisa un’epigrafe nella quale « il Senato ed
il popolo di Lugo » —S. P. Q. L . — rivolgevano umili grazie al generale
francese Augereau — Augero duci gallico — che, avendo diritto di
incendiare la città — jure belli
incendendum — le aveva con inaudita clemenza, risparmiato quel giusto
castigo.
Per
fortuna quel progetto non ebbe esecuzione. Si risparmiò così ai posteri un
documento da aggiungersi agli altri — ahimè innumerevoli — del servilismo
italiano verso gli stranieri.
Davvero quella recensione di Benedetto Croce scrollante le
spalle ha finito per trasformarsi in un’involontaria jettatura nei confronti di
un onesto intellettuale costretto dall’ironia della sorte a morire dalla parte e
a vantaggio di chi meno avrebbe immaginato e nel pieno di un’assurda insorgenza
in cui orde rivali intossicate dalla stessa illusione giacobina rinnovavano una
volta di più stragi e distruzioni ancora più vaste, inutili e indiscriminate.
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