lunedì 23 maggio 2016

Schmitt e la critica al liberalismo


di Vincenzo Cerulli

“Fin dall’inizio il pensiero liberale sollevò contro Stato e politica l’accusa di violenza” Carl Schmitt – Il concetto di Politico 1932
Carl Schmitt nel 1932 scrive “Il concetto di Politico”, un’opera fondamentale per capire ed affrontare l’apparente supremazia dell’economico sul politico. Dico “apparente” perché proprio sul finire dell’opera l’autore sfata questo falso mito, commentando un’espressione di Walter Rathenau secondo il quale alla sua epoca il destino non era più la politica ma l’economia Schmitt scrive questo: “…ora come prima, il destino continua ad essere rappresentato dalla politica, ma nel frattempo è solo accaduto che l’economia è diventata qualcosa di “politico” e perciò anche essa destino”. In questa sede non si vuole analizzare il metodo con cui il filosofo tedesco riconduce tutte le categorie di conflitto (economico, religioso, giuridico etc) al conflitto politico ma si vuole recuperare la critica serratissima che sferra contro il liberalismo per ricondurla, oggi, ad un terreno a noi più adatto.
La sfida non è nuova: Adam Smith col laissez-faire, la mano invisibile e l’autoregolazione del mercato e della società da una parte e Keynes a favore dell’intervento dello Stato come garante della giustizia sociale dall’altro. Le premesse di questi due mondi a confronto sono completamente diverse: per Smith, essendo lui liberale, l’uomo è buono di natura, in grado di autoregolare i propri commerci ed i propri affari senza danneggiare gli altri uomini, è lo Stato che figura come cattivo, corrotto e corruttore, fonte d’ogni vizio, d’ogni male ed in quanto tale va incatenato a dei paletti ben precisi.
Citando l’opera di Schmitt: “ La teoria sistematica del liberalismo riguarda quasi soltanto la lotta politica interna contro il potere dello Stato e produce una serie di metodi, per ostacolare e controllare questo potere dello Stato in difesa della libertà individuale e della proprietà privata, per ridurre lo Stato ad un <compromesso> e le istituzioni statali ad una <valvola di sicurezza>.” Il filosofo è qui chiarissimo, per i liberali lo Stato è il residuo di un’epoca barbarica da superare, nella teoria liberale lo Stato può fungere al massimo da fermacarte. Ora Keynes. A molti potrà sembrare una forzatura inserire l’economista di Cambridge fra le fila dei teorici politici che hanno come loro premessa un’antropologia pessimista ma mi limito a dire che anche se non dovesse considerare gli uomini malvagi, come accade per esempio in Machiavelli, Hobbes, Fichte ed in parte Hegel, comunque condivide le conclusioni di questi ultimi e le sviluppa apposta per la nostra epoca. In tutti gli autori qui sopra citati c’è un grande pensiero politico alla cui base sta l’idea che l’uomo è cattivo, (homo homini lupus) bisognoso di leggi forti che ne regolino il comportamento e di uno Stato forte che le faccia rispettare.
La società non si autoregola, serve l’intervento dello Stato a favore dei più deboli, a favore di chi non capisce il mercato e ne viene sopraffatto, a favore degli ultimi che non capiscono le leggi dell’economia, della concorrenza, lo Stato deve svolgere il ruolo di garante per chi non si occupa di economia. Perché accada ciò servono politici forti, con una grande teoria politico-economica sulle spalle, studiosi di Keynes e Machiavelli, Marx e Schmitt. Vi lascio un’ultima riflessione del giurista di Plettemberg per cancellare una volta per tutte la favoletta raccontata in ogni angolo dai neoliberisti secondo i quali una società regolata dal mercato e dalla concorrenza è già sempre più giusta di una regolata da politica e conflitto. “Non è però certamente ammissibile, e neppure corretto sul piano morale o psicologico o scientifico, definire semplicemente col ricorso a squalificazioni morali, contrapponendo cioè lo scambio buono, giusto, pacifico, in una parola simpatico, alla politica dissoluta, rapinatrice e violatrice. Con metodi del genere si potrebbe allo stesso modo definire, viceversa, la politica come la sfera della lotta gloriosa e l’economia invece come il mondo dell’inganno, poiché in ultima analisi il nesso del ‘politico’ con la ruberia e la violenza non è più specifico di quello dell’economico con l’astuzia e la frode”.
(Pubblicato originariamente su Economia Democratica)

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