mercoledì 18 maggio 2016

Recensione - Land of Mine


di Beatrice Ambrosi

Scegliere un argomento così delicato, nascosto alla maggior parte dei danesi, è stato certamente coraggioso da parte di Martin Zandvliet, regista del film Land of Mine ­ sotto la sabbia: ha saputo cogliere comunque nel segno, portando sui grandi schermi un'opera indipendente, scegliendo attori per la maggior parte esordienti, che si sono rivelati all'altezza dei ruoli da loro interpretati e che sicuramente rivedremo.
L'opera è ambientata in Danimarca nell'estate del 1945, a seguito della caduta della Germania
nazista, che anni prima aveva posizionato delle mine antiuomo lungo la costa occidentale del
paese danese. Nel binomio vittima-­carnefice vi è però un'inversione di ruoli: difatti sono i danesi
stavolta a rendersi colpevoli, commettendo un vero e proprio crimine di guerra, arruolando giovani
soldati tedeschi per disinnescare le mine; per la prima volta quindi, in un film sulla seconda guerra
mondiale e sugli eventi ad essa annessi, i mostri non sono i tedeschi.
Il film si apre con un sospiro del protagonista, il sergente Rasmussen (Rolland Møller) che passa
in rassegna tutti i soldati tedeschi, gridando loro di tornarsene nel loro paese e picchiando uno di
questi senza un reale motivo: da questa scena emerge tutto l'odio, la repulsione, nei confronti di
un paese che ha devastato il mondo, quello sdegno inevitabile che molti hanno provato verso
questa nazione. E' proprio al sergente che viene affidato, da parte del capitano Ebbe (Mikkel Boe
Følsgaard), il compito di vigilare sui ragazzi a cui viene ordinato di svolgere questo lavoro
abominevole, in condizioni di fame, di malessere, di nostalgia di casa: questi sono giovani pieni di
sogni e di speranze, con i volti sporchi e smunti dalla fatica; volti che contrastano con i colori caldi
con cui Zandvliet e il direttore alla fotografia Knudsen hanno deciso di rappresentare il paesaggio
circostante, ornato dalle dune di sabbia, le onde del mare e le spighe che si agitano al vento, in
giornate soleggiate dove l'unica tempesta è l'esplosione di mine.
Le protagoniste del film infatti sono anche le mine: Zandvliet è in grado di tenere lo spettatore ben
incollato sulla poltrona, in ansia, nell'attesa di scoprire se queste esplodano o meno; in una delle
scene iniziali infatti il regista mostra ognuno dei quattordici ragazzi tedeschi messi alla prova nel
disinnesco delle mine, con quella lentezza snervante e con le mani tremolanti che fanno agitare
anche chi sta solo guardando.
Il fulcro del film è costituito anche da una sorta di parabola, un percorso di formazione, del
sergente Rasmussen: dapprima scontroso e menefreghista nei confronti dei ragazzi, si ritroverà a
provare compassione per questi, a portar loro le provviste di cibo di nascosto, a difenderli dai
giochetti umilianti dei suoi superiori ed infine a giocare a pallone con loro in spiaggia.
Dovrà quindi ribellarsi al capitano Ebbe al quale non interessa che quelli siano ragazzi, che
invochino le loro mamme quando stanno male, perché "Meglio loro che noi" dirà fermamente al
sergente, non pensando che il vero scopo della missione sia bonificare le spiagge: Ebbe
rappresenta il cliché tuttora esistente che vede la Germania condannabile nella sua totalità per gli
abomini commessi durante la guerra; c'è un senso di rivendicazione e di esclusività nei confronti
dei tedeschi da parte del capitano, quasi come se il "Mine" del titolo non rappresentasse soltanto
la mina, ma il pronome possessivo inglese e conseguentemente potremmo, con un po' di
fantasia, chiamare il film "la mia terra": questo concetto è intensificato anche dall'immagine della
madre che richiama in casa la figlia che sta giocando con i giovani ragazzi (etichettati come
nazisti), luogo comune degno di un film horror o di un thriller.
E' un messaggio profondo quello che vuol comunicare Zandvliet con questa sua opera elegante e
raffinata, che parla prima di tutto di umiltà e di umanità: i cattivi non sono i tedeschi né i danesi né
ancora i britannici; i cattivi sono gli uomini, indipendentemente dalla loro provenienza. Non vuole
con ciò colpevolizzare nessuno ma semplicemente sfatare quella convinzione che per un danno,
per un abominio, quale che sia, commesso da poche persone, ci debba rimettere un'intera nazione.

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