giovedì 1 ottobre 2015

Oeconomia instrumentum regni


di Vincenzo Cerulli

“[…] il PIL misura tutto, tranne quello che rende la vita degna di essere vissuta” - Robert Kennedy 18 Marzo 1968
Dato l’argomento estratto dalla citazione e il contesto storico cui appartiene ci appare subito un quadro ben definito. Gli U.S.A., potenza vincitrice della II guerra mondiale e locomotiva economica di tutto il mondo occidentale, si trovavano a quel tempo (1968) ad un bivio molto più esistenziale che socio-politico od economico. La questione era più o meno questa: continuare a correre follemente verso la mostruosa crescita economica (con l’illusoria pretesa di crescere sempre di più), con tutto quello che ne consegue (ciò che stiamo vivendo oggi in assenza di uno Stato garante per i cittadini) o fermarsi a riflettere sulla propria coscienza nazionale ed individuale. Forse i ragazzi che, quantomeno, provarono a ribellarsi a quel sistema (che poi si rifletteva in tutta Europa) si chiedevano se fosse giusto bombardare il resto del mondo per avere il proprio orticello curato e le vetrine dei propri negozi sempre pulite.
Paolo Barnard mi ha insegnato che il PIL è: “tutto quello che il paese produce più quello che importa meno quello che esporta”. In questa operazione è però assente l’uomo, l’individuo membro di una collettività formata da pari. Come può l’uomo beneficiare dell’operazione di cui sopra se non vi è ridistribuzione di quei beni prodotti? Può certamente capitare che vi sia un paese con il più elevato PIL del mondo, ma se questa ricchezza viene spartita egoisticamente fra un centinaio di famiglie e il resto del paese è affamato, questo paese non è degno di essere chiamato Stato. La sua influenza si limiterà ad un contesto geografico e topografico, la sua vita Nazionale sarà circoscritta alle valutazione che le agenzie di rating daranno alle sue banche. Ecco, questa è “l’italia” oggi, una provincetta senza alcuna pretesa storica, il cui unico imperativo categorico è il pareggio di bilancio, far quadrare i conti, fare i compiti a casa, e farseli correggere dai “professori” di Bruxelles, Strasburgo e Francoforte. Siamo completamente immersi nel “cretinismo economico” gramsciano; per citare Ezra Pound, invece, dovremmo pensare che dopo i Re, dovrebbero essere i banchieri a perdere la testa.
C’è stato però un uomo, nel ‘900, che ha provato a rivoltare dall’interno il sistema capitalistico mondiale e, nei suoi scritti, c’è riuscito: il suono nome è John Maynard Keynes. Per il mio modestissimo parere il suo sforzo è paragonabile a quello del “più grande fra tutti i Greci”: Epicuro. Quest’ultimo infatti riuscì ad abbattere gli idoli statici dell’Olimpo, la superstizione religiosa, la cieca venerazione politeista del suo tempo. Keynes fece questo con l’economia. Nel sistema capitalistico mondiale non c’è spazio né per l’uomo né tantomeno per lo stato che lo dovrebbe difendere: per questo gli economisti vengono carezzati con mani di rosa e venerati come feticci.. Se penso agli economisti di oggi infatti mi vengono in mente gli antichi sacerdoti della Roma monarchica o la Pizia di Delfi: dalla loro bocca viene deciso quanto uno Stato possa spendere per la nostra sanità, per la nostra istruzione, per coltivare la nostra terra, quando è necessario fare la guerra e contro chi, se appoggiare un tale popolo in un conflitto armato piuttosto che un altro. I loro discorsi, oggi, sono caratterizzati da un’aurea profetico-sacrale inaccessibile ai più: chiunque provi a smascherare razionalmente le sfingi che ci presentano come assiomi viene accusato di complottismo. Così, come a Roma si paralizzava la vita pubblica per un presagio nefasto, così in Italia si passa da un Presidente del Consiglio all’altro, senza chiedere nulla a noi popolino, perché così vuole la Troika, perché così dice lo Spread, perché così vogliono i monitor di Wall Street. Secondo Keynes agli economisti andava dato il posto che gli spetta. “Guardiamoci dal sopravvalutare l’importanza del problema economico o di sacrificare alle sue attuali necessità altre questioni di maggiore e più duratura importanza. Dovrebbe essere un problema da specialisti, come la cura dei denti. Se gli economisti riuscissero a farsi considerare gente umile, di competenza specifica, sul piano dei dentisti, sarebbe meraviglioso” (J.M. Keynes "La fine del laissez-faire ed altri scritti"). Dunque, oggi, vanno posti accanto agli avvocati e agli insegnanti, come una categoria specializzata. Non devono assolutamente più essere la categoria dominante e caratterizzante della società; invece oggi è così; i politici invece sono solo maschere, sono il braccio armato degli economisti. L’occidente non ha più una guida spirituale, un’alternativa metafisica alla quotidianità proprio perché ci basta la quotidianità. L’unica via semplice per uscirne è l’etere televisivo, che oggi è il più grande mezzo di riproduzione dei dogmi economici. Non guardiamo il cielo perché ci spaventa, ci rifugiamo nelle placide preghiere della BCE riguardo le riforme del nostro paese. Per questo, oggi, possiamo affermare che la religione (qui intesa come rifugio dal cieco calcolo figlio del positvismo scientifico ed anfora del sacro) ha ceduto il posto all’economia, il trascendente all’immanente, le prospettive nazionali al reddito mensile, l’Esistenza alla sopravvivenza. Il nostro sguardo non è più coraggioso, non osa guardare oltre l’orizzonte.

(Pubblicato originariamente sul numero 0 della rivista "La voce del Padrone")

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