domenica 18 ottobre 2015

Fenomenologia di un’alluvione (o apologia del tombino)


di Vincenzo Cerulli

Nelle comunità di villaggio preindustriali, splendidamente descritte da Massimo Fini, l’individuo autosufficiente non esisteva; di contro, esisteva una grandiosa autarchia di comunità che ricorreva ai soccorsi esterni solo in casi eccezionali. Di certo la comunità era in grado di gestire emergenze riguardanti gli agenti atmosferici in maniera autonoma, per un semplice motivo: la prevenzione era una sana abitudine. Ad esempio se un contadino, un pastore, un fattore o un uomo qualunque notava che il terreno (che ancor oggi dovrebbe essere il primo margine agli allagamenti) non gli dava quelle garanzie a cui era abituato, di concerto con la comunità tutta si operava una bonifica. Qui per bonifica si intende rafforzamento degli argini di un fiume e messa in sicurezza delle pareti montane più predisposte alle frane. Ci si sentiva parte di una comunità, e la comunità comprende anche il territorio che si abita; per questo se il territorio non dava sicurezze ai suoi abitanti questi lo riparavano, curandolo quotidianamente. Oggi evidentemente ci siamo dimenticati che le strade e i paesaggi che scrutiamo ogni giorno ci appartengono. Vediamo il cemento divorare quotidianamente migliaia di chilometri quadrati di terra, da un giorno all’altro scompaiono alberi secolari e noi non abbiamo nemmeno più la forza di chiederci: “perché?”. La verità è che non sapremmo nemmeno a chi fare questa domanda dato che la comunità con cui dovremmo dialogare non esiste. Le persone non sono mai state connesse virtualmente ad un tale livello come oggi; ma allora perché il dialogo reale con il proprio quartiere non esiste? Questo è, a parer mio, uno dei più grandi paradossi dell’età contemporanea: alieni nel proprio quartiere e ospiti intimi nelle “bacheche” altrui. Il centralismo politico-culturale moderno ha eliminato il dialogo all'interno di tutte le migliaia di particolarità autonome comunali, scindendo l’individuo dalla comunità cui appartiene, per proporci poi il dialogo con altri atomi-individui (che abitano dall'altra parte del mondo) scissi dalla propria comunità di appartenenza anch'essi. In questo modo le migliaia di comunità particolari reali sono state sostituite surrettiziamente da un’unica non-comunità virtuale di cui tutti facciamo, più o meno coscientemente, parte. La domanda che oggi dobbiamo porci è questa: “come ricostruiamo la nostra comunità reale?”. Io mi rispondo molto pragmaticamente: dobbiamo tornare a scrutare ogni angolo del paesaggio che viviamo, questo il primo passo. Vi faccio un esempio poco elegante, se quando esco di casa vedo che i tombini della mia via stanno per otturarsi, con il piede ne libero le aperture. Non venitemi a parlare di rivoluzioni di piazza, politici corrotti o dei crimini del neoliberismo se non siete nemmeno in grado di curare il vostro orto e capire dove abitate. Se vogliamo costruire una comunità reale autonoma partiamo dai tombini, strada per strada.

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